Articoli
di Andrea Balzola pubblicati su “Ateatro” (2002-2004) |
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di cultura teatrale
a
cura di Oliviero Ponte di Pino
in
collaborazione con Anna Maria Monteverdi
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maggio 2004
Le recensioni di "ateatro": SuperElioGabbaret (Bestiario romano) di Luca Scarlini e Massimo Verdastro
Regia di Laura Angiulli e Massimo Verdastro
di Andrea Balzola
Roma è innanzitutto una capitale dell’immaginario. Immaginiamo
Roma (non è difficile) come una grande, unica scena, dove il tempo stratifica
architetture, letterature, echi visivi e sonori, in un declino cominciato con
la fine dell’impero romano e mai compiuto, perciò più vitale di
altri trionfi; cercando in essa e per essa una guida ideale, non la
troveremmo nei ciceroni di professione e nemmeno nei personaggi illustri che
l’hanno raccontata, ma in un “clown metafisico”, un portavoce teatrale di
memorie private e collettive, un Virgilio novecentesco con lo smoking e il
cilindro di Petrolini. Con le sue movenze da burattino
vivente, la sua ironia astuta e paradossale, la sua ambiguità androgina, la sua
poesia terrena e il suo spirito surreale.
Questa è l’ottima idea che l’attore (premio Ubu 2002) e regista
Massimo Verdastro ha scritto, in collaborazione con Luca Scarlini, messo in
scena, in collaborazione con la regista Laura Angiulli, e
interpretato, da solo, accompagnato dal raffinato arazzo musicale tessuto
da Francesca Della Monica (storica e coltissima collaboratrice musicale di
Tiezzi-Lombardi). Lo spettacolo è stato presentato in una prima versione al
Festival di Benevento del 2003 ed è poi stato elaborato nell’ambito del gruppo
napoletano di Galleria Toledo.
Il gioco di parole del titolo dello spettacolo – SuperElioGabbalo – già fornisce la
password poetica di un “montage” drammaturgico originale e sofisticato.
Eliogabalo, l’imperatore bambino, tiranno folle, eretico e anarchico, rievocato da Artaud come simbolo
dei paradossi del potere e della sua vocazione autodistruttiva,
risorto-rivisitato dalla scrittura di Arbasino (con il
SuperEliogabalo, inizialmente
concepito per un film di e con Carmelo Bene),
giunge sulla scena di Galleria Toledo, nella sua ultima contro-figura,
nella sua ultima clownesca metamorfosi: l’attore di cabaret e varietà Elio
Gabbalo (nome d’arte).
E’ come un lungo percorso dal tragico al comico, dal teatro della
storia alla storia del cabaret, luogo novecentesco della mescolanza e della
promiscuità di talenti mancati o scovati, di generi e linguaggi, perché il
cabaret è asilo di infiniti comici sconosciuti e
smarriti, ma anche palestra di formazione dei grandi attori, covo delle
rivoluzioni artistiche novecentesche come il Cabaret Voltaire dadaista o i
locali-trincea delle serate futuriste.
Regno di anarchici e autarchici imperatori
della scena come Petrolini e Totò, i grandi clown metafisici del Novecento
italiano.
Il cabaret è anche il luogo dove le memorie personali dell’attore
possono infiltrarsi tra le sue maschere, affacciandosi nella passerella dei
suoi personaggi. E’
infatti con sapiente intensità che Verdastro si fa medium di
un’incalzante sequenza di apparizioni e sparizioni di fantasmi personali e
collettivi. La memoria di un attore che ricorda di aver partecipato ai funerali
di Anna Magnani o i suoi incontri con controfigure di
attrici famose, come Scilla Gabel, s’intreccia con la Storia (alla Elsa
Morante) rievocata attraverso le storie, cioè i racconti di famiglia, in un
passaggio impercettibile tra mito e cronaca, fra memoria e immaginazione. E
poi, soprattutto, le voci famigliari dei poeti amati che raccontano in
frammenti, non sempre noti, una Roma appassionatamente vissuta, in tutte le sue
vitali sfaccettature e contraddizioni: Roma meretrice e reduce della storia
(Arbasino), ferita a morte dalla guerra (il bombardamento di San Lorenzo
descritto da Palazzeschi), o dalla tragica farsa della dittatura fascista
(nell’insuperabile sintesi di Gadda), marginale, violenta e assetata di vita
(Pasolini), troppo satura di fantasmi (nella poesia di Giorgio Vigolo), fatta
parola con il nobile e corrosivo vernacolo del Belli,
o teatro, con i surreali funerali di Maria Stuarda riscritti da Petrolini. I due autori del montaggio testuale hanno
cercato e raccolto come segugi poetici un materiale immenso e avvincente di
frammenti che non era facile scegliere e ricomporre in
un quadro drammaturgico unitario, e che potrebbero generare altre versioni
inedite dello stesso spettacolo.
Lo spettacolo è metamorfosi “eliocentrica”, dove l’attore,
illusionista del gesto e della parola, si spoglia progressivamente dei panni
sia simbolici sia fisici dei suoi personaggi (e della sua stessa “divisa” da
Cabaret), mettendosi a nudo come pura presenza vocale
e corporea, diapason emotivo di un percorso sempre più interiore, fatto di
corrispondenze talvolta evidenti,
altrove celate, sempre intime, tra le voci poetiche e i brani musicali
scelti con grande sensibilità da Della
Monica. Anche il lavoro di regia dello stesso Verdastro e di Laura Angiulli,
coadiuvato dalle scene essenziali di Rosario Squillace e dalle luci espressive
di Cesare Accetta, è minuzioso, sottile e minimalista, veste l’attore su misura
di ogni verso e di ogni gesto, e Verdastro è davvero bravissimo nell’interpretare una
partitura così ricca ma anche così diversa di registri stilistici e di cadenze
ritmiche, di stati d’animo, di valori affettivi ed etici.
SuperElioGabbaret
– bestiario romano di Luca
Scarlini e Massimo Verdastro
con Massimo Verdastro
Regia di
Laura Angiulli e Massimo Verdastro
Scene di Rosario Squillace
Costumi
di Salvatore Forisno
Luci di
Cesare Accetta
Progetto
musicale di Francesca Della Monica
Direzione
tecnica di Antonio Pennarella
Anteprima presso Galleria Toledo di Napoli
N.64 (febbraio 2004)
Le recensioni di
"ateatro": L’asino albino di e con Andrea Cosentino
Regia di Andrea
Virgilio Franceschi
di Andrea Balzola
|
Forse qualcuno si ricorda del carcere di "massima
sicurezza" situato nell’isola della Sardegna del nord che porta il nome
di "Asinara"?
Era in "voga" tra i detenuti considerati più pericolosi degli anni
settanta: camorristi, mafiosi e soprattutto terroristi. Un’aura maligna e
quasi leggendaria circonda questa isola: ora è area
naturale protetta, ma in passato ha ospitato un Lazzaretto per la quarantena
dei malati infettivi, poi trasformato nella prima guerra mondiale in un campo
di concentramento, dove sono morti ben settemila prigionieri austro-ungarici.
Infine, ed è storia ancora recente, il supercarcere "Fornelli".
Simbolo dell’isola è un fantomatico "asino albino", specie endemica
in via d’estinzione e dalle origini misteriose. A questo luogo accedono oggi solo gite turistiche guidate, a visitare le
terribili vestigia di quel passato e soprattutto la bellezza naturale delle
spiagge e del mare. Il giovane attore e autore Andrea Cosentino (con una
ricca ed eclettica formazione teatrale, che va dal Living a Marisa Fabbri e
Dario Fo, da Manfredini ai poeti improvvisatori toscani e si specializza a
Parigi nel teatro comico e gestuale della scuola di
Philippe Gaulier e Monika Pagneux) ricrea appunto una di queste gite,
moltiplicandosi in una quindicina di personaggi emblematici, su una scena
spoglia, circolare, abitata soltanto da pochi oggetti utili alla
caratterizzazione dei personaggi: occhiali da sole, un telefonino,
cappellini, un pupazzo di plastica gonfiabile, un megafono...
In questo debutto, sia pure ancora in fase di rodaggio, Cosentino si conferma
un virtuoso della metamorfosi (aveva già interpretato da solo tutti i
personaggi dell’Andromaca di Euripide) e una personalità emergente di
originale spessore nel panorama dei nostri monologanti attori-autori. Il tono
iniziale con cui presenta i suoi personaggi e l’arrivo della comitiva turistica
sull’isola è quasi da cabaret, per quanto già da subito incline al paradosso
e allo humour amaro. Poi, poco alla volta, insieme
alla moltiplicazione dei personaggi, si assiste alla moltiplicazione e alla
stratificazione dei registri espressivi. Il comico si apre al drammatico,
quando Cosentino racconta delle migliaia di prigionieri morti in uno dei più
dimenticati campi di concentramento, oppure quando fa rivivere, riprendendo
frammenti di una testimonianza autentica, il progetto fallito di evasione e la rivolta dei brigatisti rinchiusi nel
supercarcere. O ancora, quando l’unico asino albino
visibile dell’isola è un cadavere, forse ucciso dai raggi solari non più
filtrati dall’ozono. I personaggi sono tipici dell’italietta
turistica, con efficaci marcature gestuali e vocali:
oltre all’imperturbabile guida sarda, il coatto romano esistenzialista con la
fidanzata remissiva, l’ignorante pontificatore, i due amici ossessionati dal
cellulare, la single in crisi, il milanese berlusconiano con la famiglia, la
coppia omosessuale italo-inglese occupata soltanto ad abbronzarsi, il babbo
pugliese con la figlioletta pestifera. Aleggiano spietati (però mai diretti)
riferimenti ai finti esuli delle televisive "isole dei famosi", ultima spiaggia per l’omologazione seriale di qualsiasi
emozione. Un campionario di maschere dove la parodia dello stereotipo, sempre
più dilagante nella nostrana popolazione telecomandata, non si limita però
alla facile caricatura, ma apre un sottotesto metafisico, costellato di interrogativi filosofici ed esistenziali portati a
paradossi mai banali (incentrati soprattutto sul tema del tempo). E alcuni
personaggi, anche tra i più rozzi, acquisiscono così una dimensione poetica
originale, tanto più sorprendente in quanto
inconsapevole. Questa capacità di visione epifanica è sostenuta da un
sottotesto politico, o quanto meno etico: la desolazione di
quest’isola, dove la bellezza della natura è schiacciata dai fantasmi di una
memoria insopportabile, riflette metaforicamente la desolazione di un’umanità
allegramente alla deriva. Turisti naufraghi di un
viaggio mancato nella memoria storica, anche la più recente, e incapaci di
essere all’altezza di aspirazioni autentiche, non clonate, perché ormai privi
sia di radici culturali che di utopie, anche le più piccole e personali.
"Va tutto bene", ripeteva ossessivamente il comico Albanese,
duplicando lo slogan dominante dell’attuale via italiana alla bancarotta
morale e culturale (economica pure). L’isola è una specie di paese dei
balocchi, dove ci si trasforma in asini. Ed infatti,
la storia di Pinocchio che diventa asino è raccontata dal babbo alla
figlioletta, in modo frammentario e ripetuto per l’intero arco dello
spettacolo, nel vano tentativo di tenerla tranquilla. Una
bimba annoiata dal padre e intestardita solo nel desiderio di vedere l’asino
bianco, pubblicizzato sul depliant turistico. E’ questo un ulteriore registro metaforico di notevole forza espressiva
(anche per il gioco linguistico con cui il testo è elaborato). Collodi, e
prima di lui Apuleio, rappresentavano nella trasformazione in asino del
protagonista l’interruzione e lo scacco della crescita spirituale, che
coincide per Pinocchio con la perdita della parola, di quel logos che per i
filosofi greci cercava e fondava il senso stesso dell’esistenza umana. Oggi
quella trasformazione è metafora di una parola che perde la facoltà di dire e
che non accoglie nemmeno il silenzio della riflessione, restando parola
ininterrotta e vana che sfila, esibita, come il Pinocchio-asino nel circo
(oggi sarebbe il set televisivo).
Perciò il finale dello spettacolo non poteva essere più riuscito: prima una
progressiva e assoluta spogliazione della scena, dei personaggi e delle
parole, poi, finalmente, l’apparizione, in un controluce abbagliante e
metafisico, dell’attore trasfigurato (qui d’inquietante bravura) nel tanto
atteso asino bianco, che saluta gitanti e pubblico
con un prolungato e disperato raglio di dolore.
L’asino albino di e con Andrea Cosentino
Regia di Andrea Virgilio Franceschi
Collaborazione artistica di Valentina Giacchetti
Scene di Ivan Medici
Anteprima presso il rialtosantambrogio di Roma
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-------------------------------------------------------------------------------------------Le
notizie di ateatro
ateatro 63.97
03/02/2004
Debutta a
Prato Storie mandaliche 2.0
Dal 6 all'8 febbraio la
narr'azione ipertestuale & multimediale con Giacomo Verde
di
Redazione ateatro
Debutta il 6 febbraio a Prato Storie mandaliche, un
lavoro di cui ateatro ha seguito la gestazione.
Storie Mandaliche 2.0 è uno spettacolo di narrazione, con
video-fondali interattivi, composto da 7 storie
collegate tra loro: l'uomo-bambino; il mandorlo; la principessa nera; il
corvo; il cane bianco; la pietra; l'ermafrodito. Gli iper racconti di Andrea Balzola sono narrati dal
"cyber-cantastorie" Giacomo Verde.
Il protagonista di ogni storia appare come
personaggio anche in tutte le altre. L'idea è che sfruttando le potenzialità
ipertestuali della scrittura digitale ogni sera uno spettatore possa decidere
da quale storia iniziare lo spettacolo, mentre lo svolgimento della
narrazione sarà determinato dal tipo di "umore" della platea, che
potrà indicare (dialogando con il narratore) che direzione seguire in
corrispondenza di ogni bivio ipertestuale.
Nella foto, i bellissimi autori di Storie mandaliche: da sinistra
Lupone, Monteverdi, Balzola, il cyber-cantastorie Verde, Giuntoni e Paolini.
Il termine "Mandala" significa in sanscrito "cerchio
magico" o "mistico" ed è, secondo Jung, il simbolo della meta
del Sé come totalità psichica. Le rappresentazioni a forma mandalica sono
archetipi universali e sorgono nell'attività onirica e immaginaria per lo più
in situazioni caratterizzate da disorientamenti e perplessità, stati d'animo
tipici di questo periodo segnato anche da mutazioni tecnologiche che mettono
continuamente in discussione il senso della propria identità.
Le Storie Mandaliche che Giacomo Verde
racconta, parlano appunto di questo: di esseri e
sentimenti in trasformazione.
La realizzazione di Storie Mandaliche è
iniziata nel luglio del '98 durante il Festival teatrale
"Scantafavole" di Ripatransone (AP), nel corso di un laboratorio
aperto al pubblico, e il suo allestimento e' continuato attraverso altri
incontri laboratoriali e prove aperte.
La nuova versione abbandona il sistema "Mandala System" per passare
all'uso di FlashMX, in modo che i fondali interattivi, utilizzati dal
cyber-contastorie, possano essere navigabili anche in Internet per dare cosi'
un ulteriore sviluppo in rete della narrazione
teatrale in sala. I nuovi video-fondali sono stati rielaborati durante il
corso di Computer Art del Corso Multimediale dell'Accademia
di Belle Arti di Carrara. Il lavoro di allestimento
è seguito da Anna Maria Monteverdi, che sta curando con Andrea Balzola e con
la collaborazione degli autori dello spettacolo, un testo-diario con allegato
CD-rom. Il libro illustrerà le modalita' di scrittura e messinscena sperimentate durante la realizzazione di questa nuova
forma di tecno-narrazione ed è in corso di stampa per la casa editrice Nistri
Lischi di Pisa.
INFO:
www.zonegemma.org
www.xear.org/storiemandaliche
zonegemma@zonegemma.org / zonegemma@tin.it
Altre info e riflessioni sullo spettacolo le trovi
in
Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello
Verso una narrazione ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi
Raccontare non è recitare
Un mail durante le prove di Storie mandaliche
di Giacomo Verde
Un teatro mandalico
Un mail a Giacomo Verde, Andrea Balzola & Co.
di Oliviero Ponte di Pino
L'ipertesto mandalico
Un mail a Oliviero Ponte di Pino
di Andrea Balzola
LA SCHEDA
zoneGemma-Xear.org
Armunia Festival Costa degli Etruschi
presentano
Giacomo Verde
in
STORIE MANDALICHE 2.0
iper-racconti della trasformazione
di Andrea Balzola e Giacomo Verde
Iper-racconti > Andrea Balzola
Sonorizz'azioni interattive > Mauro Lupone
Elaborazioni finali FlashMX > Lucia Paolini
(con la collaborazione degli studenti del Corso Multimediale
Accademia di Belle Arti di Carrara)
Assistenza operativa > Valentina Guastini
Comunicazione > Melanie Gliozzi
Segnal'azioni > Anna Maria Monteverdi
Narr'azione e Direzione > Giacomo Verde
PRIMA NAZIONALE a
PRATO
Teatro Fabbrichino
via Targetti (accanto al Teatro Fabbricone)
ven 6 – sab 7 – dom 8 Febbraio 2004
ore 21:00
zoneGemma
laboratorio teatrale nomade di cultura biotecnologica
via del fosso 164, 55100 Lucca IT
tel. 0583 469682 - cell. 0338 7290014
http://www.zonegemma.org
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N.61 (22.12.03)
Carmelo Bene: lo specchio mutante
di Narciso
L'Otello televisivo tra Artaud
e Deleuze
di Andrea Balzola
|
Premessa artaudiana: l’attore Eliogabalo
In occasione del centenario di Artaud, il
Teatro di Roma diretto da Ronconi aveva organizzato un convegno in cui
metteva a confronto il Maestro francese con Carmelo Bene, una delle sue più
eccellenti "disincarnazioni" teatrali. Tema unificante
dell’incontro non poteva non essere la fine, l’infarto definitivo del
"teatro di rappresentazione" teorizzato da Artaud e mostrato da
Bene. Purtroppo le stagioni teatrali che dominano i cartelloni italiani attuali continuano a ignorare felicemente che Artaud e
Bene siano mai esistiti, ma tant’è, i morti e i geni si celebrano, non si
studiano e non s’interrogano. Sarebbe troppo scomodo e affaticante. La
differenza tra Artaud e Bene è la complementarità tra Pieno e Vuoto, se il
primo teorizzava per eccesso, il secondo agiva per difetto, per sottrazione,
se Artaud voleva un palcoscenico saturo e un attore posseduto da una trance cosmica, Bene svuotava la scena e riduceva il suo
corpo a "macchina attoriale", inefficace e inefficiente,
attraversata e scossa da significanti impersonali. Carmelo reclamava "un
teatro senza spettacolo", una tragicomica ironia del niente.
Ma dove inizia la fine del teatro? Probabilmente fin
dal suo primo vagito, perché la scena è il non luogo per eccellenza, prima
spazio sacro dove si celebrava ritualmente il divino, cioè
l’invisibile, l’inudibile, l’ineffabile, ciò che – per dirla con Carmelo – ci
manca; poi spazio profano dove tutto è possibile e nello stesso tempo impossibile,
in quanto nulla a teatro è vero se non la finzione stessa. Lo sappiamo fin da
bambini, ciò che accade a teatro appare senza essere. Questo
il suo paradosso essenziale, questa mancanza d’essere la sua più profonda
ragion d’essere. La scena non ha una natura propria, è e rimane vuota,
anche se momentaneamente riempita di oggetti, décor
e soggetti. Così l’attore, che è "vanitoso" (cioè,
etimologicamente, vuoto), attraversato e/o posseduto dalle maschere e dai
personaggi nel teatro classico e borghese, dalle energie e dai significanti
nel teatro post-artaudiano. In questo senso il grande attore non rappresenta
l’eroe tragico, è egli stesso il vero eroe tragi-comico, in
quanto nella sua vanità rivela al mortale suo simile l’illusione
dell’io. Un eroe moderno, come suggeriva Lacan, "è colui
che compie imprese derisorie in situazioni di smarrimento". E
sono proprio queste "imprese" che Carmelo ripeteva allo sfinimento
in ogni sua apparizione, derubando come prestanomi illustri, nobili
controfigure, gli eroi più emblematici e
problematici di Shakespeare, sbranandoli (letteralmente: riducendoli a brani)
con feroce crudeltà artaudiana e con lacaniana chirurgia ironico-analitica.
Come l’Eliogabalo di Artaud, l’attore Bene si
dichiarava contento di essere fatto a pezzi, ed è forse questo il principale
anello di congiunzione tra lui e l’autore francese, fare a pezzi la lingua e
il testo affinché possa emergere "la parola prima delle parole", la
voce di un’energia primaria capace di svellere i generi e i codici per rianimare
il corpo imbalsamato e scuotere la mente opaca dell’attore e del pubblico,
eliminare le mediazioni interpretative, concettuali ed ideologiche, spogliare
il corpo dei suoi organi attraverso l’anarchia del comico e la follia
dell’estasi.
Un'immagine dell'Otello o
la deficienza della donna di Carmelo Bene nella versione teatrale.
Lo specchio elettronico di
Narciso
Quando incontrai Carmelo sul set dell’Otello televisivo, nel 1979, mi
fece subito una domanda, mi chiese se avevo letto Differenza
e ripetizione di Deleuze, per lui il libro più importante. Superato il
test, iniziò il dialogo e potei seguire le riprese dell’Otello. Sicuramente una delle esperienze da spettatore più straordinarie,
perché vedevo nascere sotto i miei occhi un linguaggio. Bene azzerava
l’uso ordinario del mezzo televisivo e ripartiva da zero. Ripensava da zero
anche la versione teatrale che era all’origine della trascrizione televisiva.
Agiva per sottrazione, cancellava le scenografie, aboliva campi medi, campi e
controcampi, saturava i contrasti cromatici abolendo i toni intermedi,
facendo pittura elettronica, riduceva al minimo movimenti
e azioni degli attori, incollava l’inquadratura fissa ai primi piani.
Com’è noto, la scena dell’Otello di Bene era un fazzo-letto, su cui si
consumava il dissolvimento del protagonista nelle sue ossessioni. C’era una
specularità tra il quadrato di quel letto-fazzoletto-prigione
e lo schermo video. Il paesaggio del volto dilagava sui resti di una scena
smobilitata. Mi impressionava, vedendolo da vicino,
sul set e fuori dal set, la metamorfosi costante di un volto che nell’arco di
pochi secondi poteva tornare bambino o diventare anziano. Bene usava il monitor di controllo per modulare il suo volto mutante,
si specchiava nel monitor per ri-creare l’incantesimo narcisista
dell’attore nel personaggio. La voce, spesso in play-back
gli serviva come Eco, come una modulazione vocale che trasportava la
modulazione mimica. Carmelo era entrato nel recinto televisivo
lasciato temporaneamente aperto dalla riforma Rai, come un esploratore nella
foresta elettronica.
Dopo aver messo a soqquadro il cinema, e la radio, occupava gli ordinati
studi televisivi per dimostrare – prima di tutto ai tecnici che lo
assistevano perplessi – che la televisione, oltre ad essere un
elettrodomestico, come diceva Eduardo, poteva essere un linguaggio,
trasmettere una poetica d’autore. In particolare, la televisione poteva
rivelare ciò che a teatro non era visibile e che al cinema era fuori misura:
l’estetica del primo e del primissimo piano (assai più tardi lo hanno
imparato anche i professionisti della televisione), lo schermo video
specchiava in modo inedito il paesaggio mutevole del volto, induceva l’attore
stesso a scoprire come una faccia possa sostituire una scena, perché già essa
stessa è una scena. Ed è qui che Carmelo, grazie a questa esperienza
televisiva, dispiega pienamente la sua ridefinizione poetica del mito di
Narciso, non come contenuto dell’opera ma come modalità della macchina
attoriale.
Così Carmelo Bene riconduceva al grande attore il mito di Narciso,
dichiarandolo in modo esplicito in uno dei suoi scritti teorici più
importanti: La voce di Narciso. Cresciuto nell’intramontabile
tradizione italiana dell’attore mattatore, Carmelo ne indossa i panni per
farlo inciampare in un cortocircuito, ne riproduce l’enfasi del gesto e della
re-citazione, per smontarla dall’interno: il grande attore catturato dallo
specchio si disfa progressivamente degli organi del
corpo e della parola, diventa un unico volto assoluto che vive del suo
riflesso. Carmelo diceva sempre che agli incontri televisivi, veri e propri
ring del paradosso, lui mandava la sua controfigura, e i suoi primi piani ce lo confermavano: ci facevano vedere il suo volto
mutante, ostentatamente truccato e artefatto nelle espressioni, più attore
che sulla scena. Non c’era infatti alcuna soluzione
di continuità tra la sua "assenza" teatrale e la sua
"assenza" pubblica, Narciso non distoglieva mai lo sguardo dallo
specchio (Lydia Mancinelli mi ha poi confermato che Carmelo era
ossessivamente attratto dagli specchi), e se per un attimo ne era distratto,
subito vi ritornava.
L’incantesimo narcisistico presuppone la coazione a ripetere, se Narciso
distoglie il volto dallo specchio non può resistere, torna a guardarsi. Ma si
rivede ogni volta più limpidamente perché lo sguardo scava ogni dettaglio, si
rivede ogni volta diverso perché il volto non cessa
di trasformarsi. La ripetizione concentra, pulisce, spoglia, porta
all’essenziale, si dice dei grandi poeti che abbiano
la vocazione al silenzio, ma per raggiungere, per meritare, quel silenzio
devono trascorrere la loro esistenza – come Campana o Hölderlin –
nell’ossessione del verso, verso che prima è incantesimo di un suono e poi
diventa indice di una direzione: verso il silenzio. Perciò Carmelo insisteva
sul rigore e citava Schopenauer: "il talento fa
ciò che vuole, il genio solo ciò che può". L’ossessione percorre una
linea di necessità, si fonda sulla ripetizione del gesto e dell’emissione e
sulle differenze che quella accanita ripetizione
produce. Bene ritornava sempre con gli stessi fantasmi, i
suoi doppi, Amleto, Otello, Macbeth, Riccardo III, Pinocchio, ogni
volta più immobili, afasici, denudati, svogliati, su una scena sempre più
vuota. Per questo Bene trovava in Deleuze il suo mentore, Deleuze che in quel
meno noto e bellissimo saggio Marcel Proust e i segni (1967),
scriveva: " Che altro si può fare dell’essenza, differenza ultima, se
non ripeterla, dal momento che non ha surrogati e nulla può venirle sostituito?... Differenza e ripetizione si
oppongono soltanto in apparenza. Non vi è grande artista, la cui opera non ci
spinga a dire: ‘Lo stesso, eppure altro’... In
verità, differenza e ripetizione rappresentano le due potenze dell’essenza,
inseparabili e correlative. Un artista non invecchia col ripetersi, perché la
ripetizione è potenza della differenza, così come la differenza è potere
della ripetizione."
Lo specchio di Narciso non duplica soltanto, moltiplica. Bene pensava al
testo stesso come uno specchio dell’autore che si frantuma in una
molteplicità di identità, che il drammaturgo chiama
personaggi, così l’intera fabula drammaturgica si rivela come una proiezione
interiore dei volti dell’autore, e a questi volti si sovrappone quello
dell’attore. I personaggi diventano così i doppi incarnati di un doppio
protagonista, che è l’autore e l’attore insieme, dove i ruoli maschili e
femminili s’invertono o si mescolano, maschere prive di un’identità certa,
satelliti di una voce molteplice ed insieme unica
che istericamente testimonia la propria afasia. Essendo interiore il testo infatti non può essere detto, diviene irrappresentabile e
si dà soltanto per frammenti, indizi, rivelando parodicamente
l’irriducibilità di qualsiasi testo profondo alla scena della parola,
all’ordine del discorso. Il testo da rappresentare si trasforma in un
pretesto per dichiarare l’impossibilità, il fallimento, ironico e patetico,
della rappresentazione. Ma questa parola interdetta
non è un insensato vicolo cieco, frantumandosi diventa balbuziente od
ossessiva, tenta di liberarsi in phoné, verso, suono e canto. Come uno
specchio che riflettendone un altro, si moltiplica all’infinito, la finitezza
dell’attore portata ossessivamente allo sfinimento dei propri limiti si apre
all’infinito. E ricrea il mito, anche a costo della
vita. Narciso si addormenta dentro il suo volto e sogna di morire, mentre la
scena vuota attende il risveglio del pubblico.
Roma, ottobre 2002
Otello di Carmelo Bene (1979-2001, Italia, 70', Betacam SP)
è stato girato negli studi Rai di Torino nel 1979 e finalmente montato nel
2001, come produzione RaiEducational, da Marilena Foglietti, aiuto regista
d'allora di Bene, in conformità alle indicazioni del Maestro. Dopo la morte
di Carmelo Bene, Otello è stato presentato al Teatro Argentina e al
Torino Film Festival e trasmesso da RAI 3.
I links
Un frammento dell'Otello di Carmelo Bene in video streaming sul sito Rai.
Speciale Carmelo Bene
su Close-Up
N.58 (5.10.03)
|
Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail
regia di Ariane
Mnouchkine, Théâtre du Soleil
di Andrea Balzola
|
L’inestinguibile ondata migratoria di profughi e disperati
d’ogni continente, che si riversa ormai da molti anni sul territorio
privilegiato della vecchia Europa, ha invaso ormai anche le scene di molti
gruppi e registi teatrali, sensibili più dei governi all’odissea di questa
gente di tutte le etnie e le età. Da Marco Baliani
alle Albe (bianche e nere) di Ravenna, da Peter Sellars a César Brie, diversi
autori e registi s’interrogano su un fenomeno che destabilizza
radicalmente, irreversibilmente, i fragili equilibri della convivenza tra i
popoli, le culture e le lingue. Tra questi non poteva mancare Ariane
Mnouchkine e il Théâtre du Soleil, fin dalle sue origini avamposto di un
teatro concepito come laboratorio di riflessione e impegno civile, mai subalterno ma nemmeno distaccato rispetto alle
problematiche sociali e politiche della contemporaneità. Com’è sua
consuetudine, ma forse più che in altre occasioni, il lavoro della Mnouchkine
sul tema dell’immigrazione è un lavoro di lunga durata e di
ampio respiro. L’idea portante è quella di
far raccontare ai rifugiati (per guerra, persecuzione o per fame) ciò che
accadeva nei loro paesi d’origine e quale causa li ha spinti ad affrontare
l’odissea della fuga verso l’Europa. Infatti, quando noi
vediamo i volti di questa gente, nelle immagini televisive o per strada,
tutto pare confondersi in una massa indifferenziata, nella quale fatichiamo a
distinguere nazionalità ed etnie. Eppure
dietro a ciascuno di quei volti c’è una storia individuale e unica, spesso
terribile, maturata all’interno di una tragedia collettiva, una storia che
raramente può essere raccontata e che forse pochi vogliono ascoltare. La
Mnouchkine e i suoi collaboratori danno voci e figure proprio a queste
storie, nella loro lingua originaria (tradotta mediante i sottotitoli
elettronici) e con una folta e affiatatissima schiera di interpreti
che vengono da ogni parte del mondo. Poiché queste
storie sono moltissime, quasi infinite, potremmo dire una sorta di nuovo
patrimonio orale della civiltà (e soprattutto dell’inciviltà) del secondo
millennio, la Mnouchkine ha voluto raccogliere quanto più materiale possibile
dalle testimonianze dirette dei rifugiati, in forma scritta e verbale,
dividendolo per aree geografiche di provenienza. Poi ha selezionato i
materiali più emblematici, per ricavare da questi
dei brevi episodi teatrali che possono essere rappresentati in modo autonomo
oppure concatenato fra loro, come miniserie a puntate. L’insieme di tutti i
"racconti" rappresentabili raggiunge il numero di cento (come i
canti di un poema epico), per ogni replica, della durata media di tre ore, vengono scelti una ventina di episodi, secondo differenti
combinazioni, in modo tale che lo spettacolo non è mai rappresentato per
intero (lo spettacolo con tutti gli episodi durerebbe più di quindici ore) e
ogni volta "viaggia" tra vicende e luoghi diversi. Molta parte di
questi racconti sono stati raccolti nel campo
profughi di Sangatte, nel nord della Francia, uno dei "luoghi"
principali in cui sono ambientati gli episodi teatrali, insieme alle terre di
confine come Calais o di passaggio come la Grecia, l’Oceano Indiano, gli
altri "luoghi" sono soprattutto quelli delle recenti guerre,
l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Bosnia e poi l’est europeo disfatto dalla
miseria: Mosca, la Bulgaria, l’Albania. Lo spettacolo ha un inizio straordinario
e simbolico: gli attori, che di volta in volta si trasformano in macchinisti
al servizio dei loro compagni di scena, corrono sul grande
palcoscenico dispiegando su di esso un enorme telo grigio e agitandolo come
un fiume arrabbiato, la colonna sonora (tutta rigorosamente dal vivo) fa
soffiare il vento e scrosciare l’acqua mentre due "guide"
mercenarie di un gruppo di profughi afgani cercano avventurosamente di far
passare i loro "clienti" da una sponda all’altra del fiume, sospesi
a una corda. Questo quadro, così dichiaratamente finto nella sua invenzione
teatrale eppure così vero nel pathos che comunica, introduce subito alla
dimensione poetica del grande racconto, dove i
singoli, brevi e fulminanti episodi si alternano a frammenti di lettere
scritti (elettronicamente) sul fondale e letti nella loro lingua originale.
Continuamente, per tutto lo spettacolo, gli attori, vestiti negli abiti
tradizionali delle varie etnie oppure nelle "divise" (tute o abiti
recuperati) da profughi, attraversano la scena correndo, non è dato sapere da
dove vengano e dove vadano, sono anime perennemente
in fuga, perennemente alla ricerca di una terra. I personaggi protagonisti
degli episodi si muovono invece in scena sempre ed esclusivamente su piccole
pedane mobili (come rudimentali skateboard), abilmente manovrate da altri
attori. Come per evocare il passaggio veloce ed effimero sulla terra,
fantasmi in carne ed ossa che scivolano sulla superficie della terra, senza
lasciare traccia, senza potersi radicare, irreversibilmente staccati da un
suolo di appartenenza. Così appaiono e scompaiono
anche alberelli veri, sinonimo di speranza o di disperazione. Questa è senz’altro una delle idee registiche più forti dello
spettacolo, che si coniuga con un’analoga soluzione adottata per le scene: il
palcoscenico rimane sempre vuoto, è solo provvisoriamente occupato da piccole
scene mobili (anch’esse su ruote, trasportate dagli attori-macchinisti) che
sono frammenti di spazi, così come i dialoghi sono frammenti di storie. Un
palo del traliccio della luce, una baracca afgana, un container per profughi,
un gabbiotto della croce rossa, una cabina telefonica, una fermata di autobus, un pezzo di rete di confine divelta per il
passaggio dei clandestini..., la scenografia è metonimica, una parte che
evoca il tutto e lo riduce alla sua essenza, come un quadro tridimensionale o
una scultura-installazione. Queste scene così leggere avanzano e arretrano,
ruotano su se stesse, offrendo allo spettatore diversi punti di vista e
spiazzanti sorprese. Tutto, la presenza umana, la
sua voce, il suo ambiente naturale o domestico, appare e svanisce come
sospinto da un soffio di vento. E su tutto prevalgono una crudeltà e una
spietatezza che sembrano tanto inesorabili quanto insensate, come "se
Satana si fosse seduto sulla nostra tavola" (lo dice un’
intensa poesia proiettata sul fondale). Insieme alle vittime
innocenti, le donne e i bambini, anche i carnefici risultano
a loro volta vittime dei concorrenti, ma più ancora sembrano vite perdute
nell’accecamento prodotto dalle nuove divinità pagane del denaro, dai signori
della guerra o dagli imperituri fanatismi "religiosi". E’
un’odissea senza eroi e senza ritorno, che tende piuttosto all’apocalisse, un
affresco animato di grande forza comunicativa, dove
la complessa machina teatrale di questa famiglia molto numerosa che è il
Théâtre du Soleil funziona perfettamente, con un rigore raro per le scene
nostrane. Qui la limpida sobrietà e la disinvoltura degli attori, sempre
bravissimi (li vediamo truccarsi ed entrare nei personaggi a lato della
platea, li vediamo trasformarsi in atleti e macchinisti a
seconda delle necessità del momento), esalta i valori poetici e
drammatici della messinscena, evitando sia il mimetismo naturalista sia
qualsiasi ombra patetica o retorica. Uno spettacolo
"antispettacolare" che apre le finestre della nostra indifferenza o
della nostra assuefazione al dolore altrui per farci vedere e sentire, quasi
toccare con mano, quanto costa oggi per molti uomini, donne e bambini la
sopravvivenza, non solo del corpo ma anche dell’identità culturale e della
dignità umana.
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Le recensioni di "ateatro": La casa degli spiriti dal
romanzo di Isabel Allende
regia di Claudia Della
Seta, Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e Compagnia Teatrale Integrata Diverse
Abilità di Roma
di Andrea Balzola
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Nella selezione del festival "Enzimi", e subito dopo
al Teatro dell’Orologio, ha debuttato una originale
versione teatrale del romanzo best seller La casa degli spiriti di Isabel
Allende. La fortunata saga famigliare cilena, già vista in una discussa
riduzione cinematografica, ha una struttura narrativa molto
canonica e piuttosto meccanica, nobilitata da una tematica politica di fondo
che parte dallo sfruttamento latifondista dei contadini fino alle efferatezze
del golpe e della dittatura sanguinaria di Pinochet, con un tentativo finale
di indicare nell’arduo ritorno alla democrazia una possibile strada verso la
riconciliazione nazionale. Ed è proprio su questo
sottotesto che lo spettacolo mette l’accento, attraverso l’adattamento di
Claudia Della Seta, anche regista, e di Nili Agassi, con la supervisione di
Daniel Horowitz. Sia nella costruzione dei personaggi, sia nella chiave
psicologica del racconto è il punto di vista femminile a prevalere, e
quest’impostazione, tipica della scrittura della Allende,
viene conservata ed esaltata dalla messinscena. Il progetto nasce infatti dall’incontro tra due registe, Claudia Della Seta
e Glenda Sevald, e dalla collaborazione tra due compagnie: il Teatro Arabo
Ebraico di Jaffa e la Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma.
Due compagnie con alle spalle una storia di forte
impegno civile, la prima agisce nel difficilissimo contesto attuale
israeliano, cercando un’integrazione artistica e culturale tra la comunità
ebraica e quella palestinese, la seconda da molti anni conduce un lavoro
laboratoriale di grande rigore per il sostegno e l’integrazione dei soggetti
disabili o in condizioni di disagio mentale. Questo lavoro teatrale è nato
proprio a Tel Aviv, durante i mesi più duri, nel periodo di Jenin e dei
quotidiani attentati in Israele, dove la tematica
della riconciliazione appariva tanto più utopistica quanto più necessaria. I caratteri dominanti dell’adattamento teatrale e della sua
messinscena sono sostanzialmente tre: l’incontro interculturale tra attori e
tecnici israeliani e italiani, in prevalenza giovani; l’idea di creare una
narrazione a flash-back dove nipote ex-rivoluzionaria e nonno ex-reazionario
si ritrovano nella vecchia casa di famiglia per tentare una riconciliazione
che passa soprattutto attraverso la rievocazione e il racconto della storia
famigliare; la ricostruzione degli episodi salienti della vita famigliare in
un innesto cronologico che apre le porte della cucina, dove si trovano i due
"narratori", agli altri ambienti animati dai fantasmi (appunto gli
"spiriti") del passato. Lo spettacolo, diviso in tre atti,
ha una durata complessiva di tre ore e mezza, una lunghezza impegnativa per
pubblico e attori che potrebbe essere ridotta tra il secondo e il terzo atto,
ma che regge l’attenzione e il coinvolgimento emotivo grazie al ritmo serrato
degli episodi, creato dall’efficace regia e alla buona prestazione degli
attori. Quelli stranieri sanno volgere a loro favore le difficoltà della
pronuncia, sfumando con il loro accento il pericolo accademico che incombe su
molta "corretta dizione" dell’attore medio impostato italiano. Per
aumentare la disinvoltura "casalinga" dei due narratori, sempre
presenti in scena, la regia sceglie di far muovere il vecchio Esteban
(Maurizio Marchetti) sulla carrozzella e di mettere ai fornelli la nipote
Alba (Maria Serrao), la quale cucina per davvero piatti semplici poi serviti
al pubblico negli intervalli. Ai due lati della cucina appaiono i differenti
ambienti e i personaggi di tre generazioni (il passaggio dell’età dei
protagonisti è sottolineato dal cambiamento di
attori), dal vivo, o, nelle scene più dure, mediante il gioco delle ombre
cinesi, o infine, al momento del golpe, con la proiezione di documenti video
originali. Forse sarebbe stato drammaturgicamente più interessante, anche se
più difficile, mescolare i diversi momenti temporali evocati dalla memoria
dei narratori, invece di rispettare strettamente la cronologia, anche perché
la memoria non è mai lineare, procede appunto per salti
e associazioni spesso imprevedibili. In ogni caso, il delicato equilibrio tra
la dimensione tragica, sicuramente dominante, e la vena
ironica è ben calibrato nel naturalismo lievemente caricato della
recitazione, soprattutto in alcuni personaggi come la sorella del patriarca,
Férula (la brava Barbara Porta), Esteban il giovane (un vigoroso Stefano
Viali) Blanca (la versatile Sofia Diaz) e Clara, moglie sensitiva di Esteban,
il personaggio più sfaccettato e amabile (interpretata nelle tre età della
vita dalle brave e belle Tamara Stiel, Mira Anwar Awad, Alba Caterina
Rohrwacher).
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N.57 (14.09.03)
Un teatro mandalico
Un mail a Giacomo Verde, Andrea Balzola & Co.
di Oliviero Ponte di Pino
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«Come
possiamo distinguere tra le tecnologie che sono essenzialmente estensioni,
accelerazioni, anche se spettacolari, di mezzi già esistenti - come fu la
stampa a caratteri mobili - e quelle che costituiscono un "salto
quantico" e aprono nuovi orizzonti su un ordine diverso da qualunque
altro precedente?»
(George Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, 2003, p. 269)
Il logo di Storie mandaliche, con link
al sito dello spettacolo.
Storie
mandaliche 2.0 (che ho visto al Castello Pasquini di
Castigliocello il 29 agosto, in una prova aperta) mi ha
incuriosito & interessato, per due motivi. In
primo luogo perché mi sembra che stiate lavorando sui confini del teatro (e
non solo del teatro, ma anche della tecnologia e del racconto) per spostarli
un poco più in là. E (secondo) perché lo fate
lavorando su uno snodo chiave come il rapporto tra la narrazione e l’icona
(con la mediazione del corpo), che mi sembra uno dei temi centrali di questi
tempi.
Dal punto di vista della narrazione, è subito chiaro il superamento di un
percorso unico e sequenziale (la forma classica del racconto, con un inizio e
una fine predeterminati), a favore di una struttura a rete, più complessa e
articolata. Non esiste un unico percorso predestinato (anche se nelle singole
storie ciascun personaggio segue il filo del proprio, mi pare: non credo che
il Ragazzo, per esempio, possa scegliere se amare la sua Principessa), ma una
moltitudine di percorsi possibili, ogni sera diversi.
Così ogni replica lo spettacolo è radicalmente diverso e non esaurisce la
totalità delle storie. Siamo dunque più vicini al videogame - con i suoi
sentieri biforcati e le scelte che impongono a ogni
bivio o incontro - che a un romanzo o a un testo teatrale.
In Tibet, per insegnare ai bambini a utilizzare i Mandala, li fanno
percorrere con delle pedine come se fosse una sorta di gioco dell’oca:
seguendo un percorso determinato dal caso (dal lancio di un dado, per
esempio), imparano il significato dei diversi luoghi e al tempo stesso
ripercorrono nel microcosmo lo schema del macrocosmo.
In Storie mandaliche il coinvolgimento interattivo del pubblico (di
volta in volta attraverso le indicazioni di un singolo spettatore) è un
elemento essenziale. Evidenzia e rende palpabile l’esistenza dei link - gli
incroci e le biforcazioni. Peraltro questo metodo di scelta, né
predeterminata né casuale, riflette la logica complessiva del lavoro: la
decisione di imboccare una strada piuttosto che un’altra dipende dalle affinità-curiosità-associazioni dello spettatore con il
suo personaggio, ovvero con il simbolo che rappresenta (la Pietra, il
Mandorlo, il Ragazzo, il Cane...). Lo spettatore sceglie, ma in qualche modo viene scelto dalla storia.
Ovviamente il modello letterario per un’opera di questo genere è Italo
Calvino, che non a caso accoppiava alla ricerca sulle possibilità
combinatorie della letteratura quella sulle sue radici antiche e profonde (la
fiaba, il mito...), con le regolarità strutturali delle loro figure e dei
relativi intrecci.
Come in Calvino, una struttura narrativa non lineare si contrappone
implicitamente all’idea di storia come progresso unidirezionale, che cattura
le molteplici sfaccettature del reale per ricondurle a
un destino unitario. Per lo «scientifico» Calvino
l’alternativa a questa narrazione unidimensionale divenne quella della
«narrativa come processo combinatorio»: un meccanismo per esplorare ed
esaurire «matematicamente» (e dunque «disumanizzando» la macchina narrativa)
tutti i possibili stati della realtà (del racconto). I
«navigatori» Verde & Balzola, invece, per catturare la molteplicità del
reale aprendosi alla bidimensionalità e utilizzano la rete, inserendo - come
si è detto - il principio della scelta: il racconto si muove su due dimensioni
incrociando altri racconti (la terza dimensione, se si vuole usare questa
metafora, nascerebbe dalla possibilità di scelta dei singoli personaggi della
fabula: se per esempio il Ragazzo potesse scegliere se innamorarsi della
Principessa o no, scegliendo dunque di entrare in uno dei due mondi
paralleli, quello dove ama e quello dove non ama...).
E’ una scelta con evidenti implicazioni ideologiche: la rete pare oggi anche
l’alternativa a un sistema di potere autoritario e
piramidale. Se nel corso di una serata si assiste a quel racconto, unico e irripetibile, resta aperta e sempre presente l’esistenza
di altre storie possibili. E’ il qui e ora del teatro, è
la presenza dell’osservatore che tra le numerose storie fa «collassare»
quella effettivamente raccontata, facendola passare dal virtuale al reale.
Ma a questo punto mi interrogo: nella struttura del
vostro Mandala, esistono infiniti percorsi possibili, o solo un numero finito
di percorsi? (un numero finito) Ed esistono percorsi infiniti? E se esiste un percorso infinito, si tratta di loop o di
un percorso a-periodico? (Mi immagino una replica
infinita delle Storie mandaliche, con il narratore e il pubblico persi
labirinticamente nel racconto, come nelle Mille e una notte). E poi, esistono (come nell’eterno ritorno buddista)
percorsi ouroborici che ritornano al punto di partenza? (forse lo spettacolo
dovrebbe finire così, al punto di partenza, dove tutto è uguale e al tempo
stesso diverso, mentre in effetti in Storie
mandaliche i percorsi vanno dai sei punti d'ingresso verso il centro,
come nei percorsi seguiti normalmente nel corso della meditazione sui
Mandala).
Credo in ogni caso che Storie mandaliche sia una delle prime occasioni
in cui una struttura narrativa così complessa viene
utilizzata sulla scena con tale efficacia e leggerezza (ovvero senza mai far
pesare, nel corso della narrazione, il meccanismo narrativo e tecnologico che
la sottende). Ma questo è solo uno degli aspetti del
lavoro. Perché questa «ipertesto mandalico» prende sostanza in due medium che
interagiscono: da un lato il racconto orale, dall’altro uno schermo popolato di icone (ai quali andrebbe aggiunta la colonna sonora di
Mauro Lupone).
Il rapporto tra la narrazione e l’icona è uno degli snodi centrali
dell’attuale scenario comunicativo: basti pensare al fragile equilibrio che trovano sullo schermo dei nostri pc. Lo specifico di Storie
mandaliche risiede proprio nell’interazione tra la dimensione narrativa e
quella iconica, nello «spazio mentale» che crea
nello spettatore (e qui siamo per molti aspetti vicini al fumetto, nel
connubio della narrazione con una visualità semplificata, codificata).
Anche se il ruolo dello schermo con le animazioni flash in Storie
mandaliche è assai più complesso. Dal punto di vista della
tradizione teatrale, lo schermo con le animazioni flash è un elemento
scenografico: quanti sono gli spettacoli che usano come sfondo proiezioni
cinematografiche o televisive... Ma in realtà l’interazione dell’interprete
con questa «scenografia» è assai più intensa: per certi aspetti ricorda gli
attrezzi usati dai giocolieri, fino quasi a diventare una estensione
del corpo dell’attore-narratore (che peraltro sullo schermo si materializza
nel puntatore del mouse - il fulcro o il punto cieco del rapporto tra lo
schermo e il reale). Ancora, le immagini sullo schermo, come nelle tele
dipinte dei cantastorie, costituiscono in qualche modo una «illustrazione»
della storia (danno un equivalente visivo del racconto) e al tempo stesso ne
sono il motore: offrono un supporto mnemonico al narratore (come i quipus
andini, fatti di cordini colorati e annodati che stenografano i punti chiave
del racconto e che il narratore, facendosi scorrere tra le dita, utilizza
come memoria), e spesso - quando appunto s’incontra un nodo - diventano il
motore della narrazione.
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Inoltre quello schermo è esso stesso un teatro, popolato di
icone animate o in movimento. Sulla metafora dello schermo del
computer come teatro ha insistito Brenda Laurel; e sulla strada che ha
tracciato, c’è stato chi ha assimilato al teatro anche le animazioni flash attualmente usate in Storie mandaliche.
«Un sito Flash viene
sviluppato come un microcosmo che sboccia in un macrocosmo. Il medium
internet è la "scena" /stage/ -- la piattaforma dove l'animatore
Flash /flashanimator/ importa, incolla e scolpisce "simboli"
(personaggi /charachters/) cui vengono assegnate
"azioni" (ruoli /roles/) in una trama /plot/ grafica
multidimensionale. L'animatore Flash è l'autore di un dramma /play/ sulle
verità visuali della vita. La gamma espressiva della grafica in movimento è
incredibile, dalla serenità all'ansia». (Nate Burgos, Flash Fetish, in "ctheory")
Va sottolineato che la scelta di usare animazioni
flash (che con le loro semplificazioni rimandano all’ideogramma) si
contrappone decisamente alla ricerca del realismo perseguita dal cinema e dai
videogame. La scelta è, al contrario, di spingersi verso la dimensione simbolica
- verso il mito o la fiaba. E in questa direzione
vanno anche, ovviamente, le storie narrate.
Credo che la scommessa di Storie mandaliche sia quella di costruire
un’esperienza comunicativa complessa a partire da elementi semplici e
immediatamente decodificabili (anche da un bambino, e in questo sta
l’apparente ingenuità «fiabesca» dei racconti), con un robusto supporto
tecnologico usato consapevolmente e senza feticismi. La consapevolezza
riguarda soprattutto la ricerca sugli effetti di una tecnologia sul nostro
rapporto con il mondo e sulle nostre modalità
comunicative. In questo caso la possibilità di creare link e dunque una rete
si oggettiva ovviamente in primo luogo nel Mandala, che è insieme un’icona
visibile (la prima, che all’inizio della serata viene
«spiegata» come in un documentario in termini storici e filosofici) e la
struttura nascosta dello spettacolo. Successivamente
i link (le scelte) diventano anch’esse un elemento narrativo - anzi, il
principale elemento narrativo:
La tecnologia viene utilizzata con grande naturalezza, tanto da risultare
praticamente «invisibile»: il narratore utilizza con grande scioltezza il
mouse, clicca tranquillamente sui link, lancia le animazioni flash senza che
questo causi nel pubblico sorpresa e meraviglia - tutto questo fa già parte
del nostro mondo. Per questo mi sono molto piaciuti i momenti in cui qualcosa
non ha funzionato: perché in questi momenti di verità tutta la complessità
del meccanismo diventa visibile (e si capisce anche che sulla tecnologia è in
qualche modo possibile intervenire per correggere, riprendere eccetera -
forse si potrebbe addirittura inglobare nella trama dei racconti qualche
incursione nel cuore del meccanismo, anche se l’«effetto verità» dell’attore
alle prese con il problema tecnico è un’altra cosa). Sono quelli i momenti in
cui lo spettatore capisce quello che c’è oltre la cornice (è curioso come
l’equivalente del teatro nel teatro corrisponda in questo caso all’errore
tecnico).
Per valutare il senso complessivo di questa fase della ricerca (al di là di squilibri e aggiustamenti di minor peso),
credo sia utile fare un esperimento mentale: pensare di vedere unicamente le
animazioni flash (come un cartone animato), oppure pensare di ascoltare
unicamente il racconto (radiofonicamente). Ciascuna di queste «versioni»
delle Storie mandaliche rischierebbe di apparire non solo povera ma
sostanzialmente incomprensibile: le icone sono semplici, le animazioni non
sorprendono mai con i loro effetti speciali; e il racconto per ora rischia
spesso di scivolare nel fiabesco oppure, nel finale, in astrazioni
intellettualistiche (ma qui si tratta probabilmente di trovare il giusto
equilibrio, e di restituire nella narrazione i diversi livelli di lettura del
racconto, evidenziando i nodi simbolici).
Ma non è questo l’importante: la chiave del lavoro non è
tanto la bellezza delle immagini o la tenuta del plot. L’importante è
che le immagini non sono solo illustrazione del
racconto, il sonoro non è solo commento delle immagini. Accoppiando immagini e sonoro, potrebbe nascere un cd-rom (e un sito
internet) dove alla fisicità dell’attore e all’esperienza collettiva del
pubblico si sostituisce l’interattività più immediata del singolo utente. Perdendo inoltre le risonanze con la narrazione popolare che la versione
teatrale suscita immediatamente. Ecco, credo proprio lavorando
sull’indispensabilità reciproca di icone e racconto
da un lato, oltre che sui momenti di verità nello svelare i segreti della
macchina, le Storie mandaliche possono continuare a crescere e trovare
la loro specificità e credibilità.
Non so se con questo «sistema narrativo» sia davvero possibile creare uno
«spazio mentale» alternativo, più aperto alla dimensione simbolica da un lato
e in grado di cogliere con maggior sottigliezza le potenzialità dei «mondi
paralleli». Va anche tenuto conto che la dimensione ludica («Quale strada
imbocchiamo?») può avere risonanze assai diverse quando a compiere la scelta
è un unico utente che usa un cd-rom di fronte allo schermo di un pc, oppure
un gruppo di persone unite di fronte a un
narratore-sciamano. Tuttavia mi pare che il senso profondo
della scommessa dia proprio questo: attivare zone che si trovano in
profondità (nell’hardware dei nostri meccanismi percettivo-emotivi, o
attivando contemporaneamente diverse funzioni mentali, o se si preferisce
interagendo con strati dell’anima
L’animazione
del mandorlo (Flash 6): eventualmente cliccare sul pulsante destro e poi
"Riavvolgi".
Altre info su Storie mandaliche 2.0 in ateatro 56.
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L'ipertesto mandalico
Un mail a
Oliviero Ponte di Pino
di Andrea Balzola
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Ciao Oliviero,
ho letto adesso le tue riflessioni su Storie mandaliche che mi ha
inoltrato Anna, stavo per scriverti anch'io e di
pochissimo mi hai preceduto.
Per quanto riguarda la struttura del nostro Mandala,
abbiamo preso a modello il senso tradizionale del mandala buddhista (io ho
studiato soprattutto quello tibetano, non solo sui libri ma con maestri
tibetani) e l'interpretazione junghiana, dove il Mandala ha radici archetipiche
universali (si manifesta spontaneamente nei sogni individuali e nelle
rappresentazioni artistiche-rituali di molte civiltà)ed è veicolo simbolico e
strumento della trasformazione (purificazione delle negatività e loro
trasformazione, funzione simbolica che avevano anche i labirinti delle
cattedrali gotiche cristiane), orienta la frammentazione della psiche e
dell'identità verso un centro. Questo centro per Jung è il
Sé, quindi la porta d'accesso del singolo alla dimensione universale e
trascendente, per i Buddhisti è la consapevolezza realizzata e
risvegliata, la consapevolezza del Vuoto (ovviamente da non confondere, come
spesso si fa in occidente, con il Nulla nichilista): «Il vuoto è forma e la forma è vuoto».
Sulla base di questa struttura ho creato l'ipertesto
narrativo, si entra nel Mandala da 6 punti cardinali o porte (est, nord,
ovest, sud, nadir, zenith) e si giunge a un centro unico. I punti cardinali
corrispondono anche agli elementi e ai quattro regni: minerale, vegetale,
animale, umano maschile e femminile, il centro è il regno divino. In questo
centro dove tutte le storie confluiscono, si sciolgono e si trasformano si
apre la porta dell'irrapresentabile, ecco perché l'ermafrodito,
sintesi dei contrari e di tutti i regni. Il linguaggio qui deve
cambiare registro, non più narrativo ma poetico, non più descrittivo ma
dichiaratamente simbolico ed ermetico.
Questa struttura, in cui tutti i percorsi si intrecciano
in più punti (i link delle storie), presenta molte (non infinite) varianti
che possono rendere la narrazione sempre diversa nella combinazione - decisa
dal pubblico - dei sentieri da seguire e montare tra loro. Il finale non può
essere circolare (sarebbe una soluzione simbolicamente altrettanto significativa e legittima, ma richiede un'altra struttura
di partenza) e deve essere unico, cioè portare sempre al centro, come nel
Mandala classico. Tutte le storie hanno diversi link durante il percorso, non
appena compaiono nuovi personaggi protagonisti oppure in loro successive
apparizioni. L'unica storia che ha link solo alla fine
è la pietra perché è cronologicamente (e simbolicamente) antecedente alle
altre, è sul piano simbolico la pietra angolare della narrazione così come
nel racconto è la pietra angolare del tempio di Gerusalemme. I fatto che la pietra sia un passato che si può raccontare
dopo il presente mi sembrava una distorsione temporale interessante, se
risulta troppo lunga come porzione narrativa si può pensare di abbreviare la
narrazione teatrale.
Il rapporto tra narrazione e icona che tu hai giustamente rilevato come
centrale (ma aggiungerei anche il sofisticato lavoro
sul sonoro di Lupone, che deve ancora essere valorizzato appieno) si snoda
proprio attraverso lo schema dei link, che era già progettato e presente
nella scrittura delle storie e che è stato perfezionato e arricchito nel
lavoro di messa in «icono-scena». In effetti noi,
per sincronizzare i linguaggi e mettere alla prova la loro forza singola
abbiamo fatto durante il laboratorio quello che tu ora ci consigli, cioè
provare separatamente la narrazione e la sequenza animata. Il risultato ci era parso soddisfacente, con aggiustamenti che faremo
nel prossimo e ultimo laboratorio (probabilmente ancora a Castiglioncello)
prima della Prima.
Quando tu dici che ti sono piaciuti gli errori che fanno vedere la «macchina»
tecnoteatrale ti capisco bene e sono d'accordo, é nella strategia interattiva
di Giacomo fingere almeno una volta di sbagliare per rilanciare attenzione e
curiosità (vecchio trucco della commedia dell'arte), ma è anche interessante
far vedere al pubblico e percorrere esplicitamente con il mouse
le iconcine nascoste dei link, in questo modo si rivela, senza
ostentarlo, la struttura ipertestuale delle sequenze animate.
Io credo, diversamente da te, che sia "la bellezza delle immagini"
(forse alcune le avrei preferite più artistiche e meno
videogame) sia la "tenuta del plot" siano necessarie per
reggere e "slanciare" l'insieme. Per questo non sono d'accordo ( o
per lo meno mi preoccupo) quando dici che le storie sarebbero deboli senza
immagini, perché rischiano di "scivolare nel fiabesco oppure, nel
finale, in astrazioni intellettualistiche".
Per quanto riguarda l'intellettualismo
dell'ermafrodito, io e Giacomo siamo convinti che sia una sensazione
provocata dal fatto che quella parte (non essendo stata ancora studiata e
interiorizzata da Giacomo) è stata letta, e quindi non modulata da un salto
di registro che ci deve essere anche nella narrazione, inoltre c'erano dei
problemi sul volume del sonoro e sulla sincronia stessa delle immagini che
hanno fatto risultare troppo lunga e artificiale una parte che dev'essere
soprattutto, aldilà del simbolismo, follemente poetica e sintetizzare l'esito
dei vari personaggi.
Il rischio del fiabesco è invece un rischio calcolato, il racconto mitologico
si rivolge tanto agli adulti quanto ai bambini, ovviamente con diversi
livelli di lettura e di coinvolgimento. Il mio tentativo di scrittura è stato
quello di sviluppare una narrazione apparentemente semplice, quasi
elementare, come una specie di favola metropolitana (una favola con tematiche adulte e contemporanee), sostenuta però da una
struttura simbolica profonda e da una sofisticata (generata non però a
freddo, a tavolino, ma tramite un viaggio interiore) tessitura di
associazioni e corrispondenze. Non è necessario che siano colte tutte e
subito, ma comunque agiscono, come una sorta di
mappa segreta della narrazione, nella quale ognuno (sia chi la fa che chi la
sente) potrà perdersi e ritrovarsi a modo suo. E in effetti
è quello che, da molte reazioni che abbiamo avuto alle prove di
Castiglioncello (e alle precedenti versioni), sembra accadere, chi è disposto
a entrare nel Mandala (come ci ha detto un attore spettatore, chiediamo allo
spettatore una partecipazione non distratta) si perde nei rivoli o nel fiume
della storia, a proprio modo, ciascuno sognando uno spettacolo diverso. Con
la sapiente orchestrazione narrativa da cybercantastorie di Giacomo, che
secondo me sta trovando il registro sempre più
giusto per raccontare, tra l'antico cantastorie, l'illusionista digitale e lo
sciamano (alla fine, la guida che amichevolmente ed anche misteriosamente
conduce nel teatro di un ipersogno. Non appena sarà rodata l'intera macchina
e interiorizzate le storie, Giacomo potrà gestire gesti, suoni, pause, parole
e animazioni come un direttore d'orchestra.
Ti ringrazio ancora moltissimo per il tuo contributo, così articolato e
generoso, un'altra caratteristica di questo nostro progetto è che non ci interessa tanto avere dei critici che ci concedono
un'ora del loro prezioso tempo per vedere la Prima, ma trovare dei compagni
di strada come te che interagiscano creativamente e intellettualmente con il
lavoro di costruzione dello spettacolo, con stimoli, suggerimenti, letture
personali, critiche sincere e costruttive, perché non crediamo più nel teatro
catena di montaggio dello spettacolo che domina le nostre scene, ma nel
laboratorio antropologico del teatro (non a caso lavoriamo a questo progetto
da tanti anni).
Un caro saluto
Andrea Balzola
N.56
(20.08.03)
Storie mandaliche 2.0 di Andrea
Balzola e Giacomo
Verde a
Castiglioncello
Verso una narrazione
ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi
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Mandala è un diagramma di forme geometriche e
antropomorfiche che manifestano diverse sfaccettature di significato (...)
Immagine del mondo e luogo della teofania, proiezione della psiche e
percorso che conduce all'illuminazione, il mandala
è costruzione sintetica e dinamica (...) poiché è integrazione dell'uomo
nell'universo e dell'universo nell'uomo; il termine più calzante per
definirlo resta ancora quello di “psicogramma” coniato da Tucci.
(M. Albanese-G. Cella, Mandala, il linguaggio del profondo)
Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e
il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad
un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva
ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del
Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale
dell'individuo, “cosmogramma” e “psicogramma” come ricordava Tucci. 1
Al Festival Scantafavole di Ripatransone (Ascoli Piceno, luglio 1998)
inizia il primo laboratorio con conferenza dimostrativa pubblica in cui
contestualmente alla scelta già predeterminata del sistema interattivo
Mandala System, si pongono le premesse per la scelta dell'iconografia e il
primo abbozzo di un testo che per adattarsi alle esigenze della macchina
tecnologica fu concepito da Andrea Balzola con caratteristiche
ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi
e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono
sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale,
vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra
loro che hanno un andamento “concentrico”: il bambino-uomo, il mandorlo, la
principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco,
l'ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è
associato a un colore, ad un elemento e a un punto cardinale
(nell'orientamento mandalico l'Est è rivolto in basso) più il Nord-Est che
è nella simbologia mandalica il luogo del sole, il sud-ovest che è il luogo
della luna, e il centro.
Il Mandala, il “cerchio magico” della tradizione tantrica,
è un elemento fondamentale delle cerimonie rituali e delle pratiche
di meditazione, secondo Jung “strumento per l'individuazione del sé” e
“rappresentazione simbolica della psiche”. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono
ai punti cardinali ed un centro che è particolarmente importante perché il
mandala è la determinazione di un percorso che conduce all'illuminazione
attraverso un rito di orientamento. Il labirinto greco, i rosoni delle
cattedrali medioevali, la figura del serpente uroboros si ricollegano allo
stesso sostrato simbolico.2
La narrazione teatrale ha come unico elemento scenografico una piramide di
legno a tronco rovesciato, come la montagna sacra della tradizione
induista, intorno al quale il narratore agisce e racconta ripreso dalla
telecamera posizionata a terra e con il pubblico
seduto nel perimetro mandalico. In Storie mandaliche, che raccoglie l'eredità del tele-racconto, lo spettatore
teatrale, collocato dentro il cerchio, entra dentro la narrazione, nel
crocevia di tutte le storie con le immagini e i suoni in continua
trasformazione grazie al programma informatico Mandala System. Nel Mandala
System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con
oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende
in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in
tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini
e agli oggetti generati, invece, dal computer. Se la mano o il corpo
ripreso dalla telecamera “tocca” (virtualmente) qualcuno degli oggetti,
crea eventi di tipo visivo e sonoro, generando in diretta
situazioni in continua trasformazione trasmesse nello schermo o nei
quattro monitor angolari. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi e ha
acquistato nuovi sviluppi narrativi e “volubilità” di forma a seconda dei “contesti partecipati” in cui era
collocato e delle ipotesi di lavoro e delle ricerche del gruppo; il Mandala
System3 è
stato sostituito dalle animazioni in formato Flash, create da Lucia
Paolini; a ogni animazione è legata una musica, del
compositore elettronico Mauro Lupone. 4
Nell'architettura labirintica e ramificata della narrazione non lineare e
non sequenziale della scrittura ipertestuale creata per Storie
mandaliche ognuna delle sette storie percorse conduce al centro - come
ogni mandala.
Il centro, ovvero alla fine del tragitto, è la soluzione e il luogo fisico
dove tutte le storie si intrecciano e si
incontrano. La narrazione è quindi un percorso che conduce verso il centro,
dentro l'intreccio dell'unica trama che lo spettacolo va a svelare: chi
si trasforma non muore, chi non si trasforma muore, dietro cui si nasconde l'archetipico topos della
mutazione-traformazione presente in tutti i miti e leggende della
tradizione occidentale e orientale. La trasformazione è anche la
caratteristica dell'ipertesto, ovvero "rete di segni
interconnessi", la sua continua modificabilità e transitorietà dal
testo di partenza in cui la responsabilità del percorso narrativo si
trasferisce dall'autore al lettore (o al digitatore). Modalità "itinerante" e "creativa" è
stata definita la navigazione in uno spazio di scrittura ipertestuale da
parte di un “lettore attivo e a volte anche un po' invadente”. 5
Nella modalità del racconto orale inoltre, la
storia viene ogni volta modificata, ricreata, si aggiungono particolari, se
ne omettono altri a seconda dello "stato d'animo" del pubblico:
il narratore diventa, secondo una bella definizione di Giacomo
Verde "un termometro dell'emotività della
platea"; l'attore-sibilla, attraversato dall'umore del pubblico,
partorisce parole, suoni e immagini ed è in qualche modo anche lui
"impasto di incessanti mutazioni”. 6 Longo ha
riflettuto sulla recente riscoperta della narrazione, "attività non
più unilaterale, rigorosa e sequenziale tipico della scienza bensì dalla
dimensione immaginaria e dalla colorazione affettiva”. 7 A tale scopo
il lavoro del tecnonarratore unisce alla memoria orale
collettiva (quella che Pietro Barcellona definisce "il deposito
della gruppalità, la cui elaborazione è fondamentale per la creazione
dell'individualità” 8), l'abilità
digitale (nel senso letterale e anche etimologico del termine): il cyber
contastorie (la definizione è di Giacomo Verde,
che ci tiene a definire il narratore sulla base dell'immagine del
raccontastorie 9)
anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che
lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.
Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della
parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende
corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi,
concettualizzarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo
spettacolo mobilità di identità e di senso, come
era nella originaria natura della maschera. In questo nuovo teatro, gioco
di scambio di estetiche e di stati d'animo, il
narratore tra computer e video in scena, conduce l'azione in un percorso
labirintico prima della storia, prima di tutte le storie e lo spettatore
dentro miti e archetipi invisibili. Lo spazio torna così ad assumere le connotazioni antropologiche e magico-rituali del
“sacro recinto” arricchito di una sorprendente imagerie, frutto di
un'elaborata scrittura scenica e di una raffinata partitura a più voci.
NOTE
1 G. Tucci, Teoria e pratica del Mandala, Milano, Ubaldini, 1969.
2 K. Kerény nel volume Dioniso riporta le
iconografie greche antiche documentate a Mileto, nel Santuario dedicato ad
Apollo, al Palazzo di Cnosso e su raffiguazioni provenienti da Atene relative all'immagine (come segno e non simbolo) del labirinto:
il meandro e la spirale continua (linee curve o angoli retti), percorso
iniziatico aperto che conduceva al centro e poi con una giravolta
decisiva di nuovo all'ingresso se la conversione avveniva esattamente
al centro oppure, se tracciato chiuso, prigione eterna senza via di uscita
in cui si perde la vita. Labirinto come luogo di morte o di
illuminazione. Raggiungere il centro del labirinto
signicava, infatti, nel mondo greco antico, penetrare nei recessi
sotterranei e protetti dei misteri divini, itinerario sapienzialie
per raggiungere una rinnovata condizione di "liberazione
conoscitiva". K. Kereni, Dioniso, Milano, Adelphi, 1992; vedi
anche K. Kerèny Nel labirinto, Torino, Bollati Boringhieri, 1983.
3 Sui software per la danza vedi E. Quinz, La scena
digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001. Su
Storie mandaliche esiste un originale studio di Laura Gemini confluito nella sua tesi di dottorato (L'incertezza
creativa. La comunicazione teatrale, Università degli studi di Urbino, Facoltà di Sociologia, 1998-2000); la
ricercatrice aveva seguito alcuni laboratori e spettacoli aperti al
pubblico e intervistato da una parte Giacomo Verde sugli intenti dello
spettacolo, dall'altro gli spettatori per verificare quale degli aspetti
contenutistici e in generale comunicativi dello spettacolo era stato
maggiormento assorbito e compreso.
4 Storie mandaliche ha
avuto ad oggi varie dimostrazioni-spettacoli a La Spezia, al Piccolo Regio
di Torino, al Festival di Radicondoli, a Livorno, a Pisa. Documentazione
più dettagliata su www.verdegiac.org. In corso di stampa il libro Storie
mandaliche a cura di A. M. Monteverdi e A.
Balzola. La nuova versione di Storie mandaliche prevede la
collaborazione per le animazione in flash di Lucia Paolini.
5 G. Landow, L'ipertesto.Tecnologie digitali e critica letteraria, a
cura di P. Ferri, Milano, Mondadori, 1998 (1a ed. 1994). L'ipertesto secondo Landow è costituito da blocchi
di testo e da collegamenti elettronici tra i blocchi che permettono di
“interagire, dar forma a sequenze sempre diverse, di generare percorsi di
senso sempre diversi”. Ivi, p. 6.
6 La frase è di Fernando Mastropasqua in Attore e
Sibilla, in Metamorfosi del teatro, Napoli, Esi, 1998.
7 G. Longo, Homo technologicus, Roma, Meltemi, 2001,
p. 34.
8 P.
Barcellona, L'individuo sociale, Genova, Costa & Nolan, 1996, p.
6.
9 G. Verde nello spettacolo delle Albe Lunga vita
all'albero (1990) interpretava la parte del maggiante toscano che nella
finzione teatrale era smemorato e chiedeva aiuto, per terminare la sua
storia, al griot africano.
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N.54 (01.07.03)
Dedicato a Marisa Fabbri
L'editoriale
di Redazione ateatro
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ateatro 54 è dedicato a
Marisa Fabbri. Il perché lo spiega bene Andrea Balzola, nel ricordo che apre
il numero: «Tra le molte cose che ho imparato, lavorando insieme a Marisa, la più rilevante è stata forse proprio la sua
determinazione a rimettersi continuamente in gioco, a non sostituire mai la
forma con la formula e la ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice
della fama, della carriera e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a
gestire la sua "icona" pubblica».
Nel teatro italiano di questi anni, Marisa Fabbri ha
rappresentato per molti un punto di riferimento, ma purtroppo anche una
eccezione, una delle tante anomalie che faticano a incidere sul sistema. Però
è anche grazie alla pratica artistica e alla carica umana di persone come
Marisa Fabbri che le nostre scene, ogni tanto, hanno ancora qualche sprazzo
di vita e di autenticità, e costruiscono occasioni
di incontro e di scambio.
Uno degli obiettivi di ateatro (un obiettivo
troppo ambizioso per le nostre forze) è di fare in modo che percorsi come il
suo suscitino interesse e curiosità, possano essere meglio conosciuti e
studiati, vengano inseriti in un sistema teatrale più aperto, trovino
condizioni di lavoro più adatte alle loro necessità.
In ateatro 54 tiriamo qualche altro sasso nello stagno. Per prima cosa
ricordiamo per l’appunto Marisa, grazie a Andrea
Balzola che con lei ha lavorato in diverse occasioni.
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Ciao, Marisa
Un ricordo di Marisa Fabbri
di Redazione ateatro
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La scomparsa di Marisa Fabbri lascia un enorme vuoto nel teatro
italiano.
Lo lascia perché non potremo più godere delle sue
straordinarie interpretazioni - tra tutte leggendaria quella delle Baccanti
(1976, Premio Ubu per la migliore attrice) all’interno del Laboratorio di
Prato, dove era l’unica interprete della tragedia di Euripide, in un tour de
force interpretativo che era anche una riflessione sul teatro, una
rivelazione sul rapporto tra attore e spettatore.
Ma Marisa Fabbri lascia un vuoto anche e soprattutto
per la sua generosità e per il suo amore per il teatro, vissuto sempre come
luogo in cui mettersi in discussione e aprire un rapporto di comunicazione
con il pubblico. Dal punto di vista tecnico, poteva rivaleggiare con Carmelo
Bene, come ha dimostrato nel suo assolo V.O.C.E., ovvero Virgilio, Omero, Gregory
Corso ed Euripide (1983). Così come erano
straordinarie la sua intelligenza e acutezza nel leggere i testi: grazie a
questa capacità analitica le sue interpretazioni erano anche acute operazioni
critiche.
Nel corso della sua carriera, Marisa Fabbri ha
lavorato con alcuni tra i maggiori registi del dopoguerra: Aldo Trionfo per Dialoghi
con Leucò da C. Pavese (1964), Vinzenz e l'amica degli uomini
importanti di R. Musil (1964), dove si esibiva in stile Marlene Dietrich,
Elettra di Sofocle (1974); Giorgio Strehler per I giganti della
montagna di Pirandello (1966) e Cantata del fantoccio lusitano di
P. Weiss, (1968); e soprattutto Luca Ronconi per I lunatici di
Middleton (1965), l'Orestea di Eschilo (1972), dove era Clitemnestra, Spettri
di H. Ibsen (1981), Ignorabimus di A. Holtz (1986), dove per nove
ore recitava in panni maschili in un cast tutto femminile premiato con l’Ubu,
I dialoghi delle Carmelitane di G. Bernanos, Le
tre sorelle di Cechov, L’uomo difficile di H. von Hofmannsthal
(Premio Ubu per l’interpretazione particolarmente singolare), Gli
ultimi giorni dell'umanità di K. Kraus (1990).
Nel corso della sua carriera Marisa Fabbri ha anche
voluto e saputo rischiare collaborando con giovani registi: Cherif per Bestia
da stile di Pasolini (1986) e Il Corano al Teatro di Roma (2000),
dove leggeva il testo su Sabra e Chatila di Jean Genet, Mauro Avogadro per Il
dolore da Marguerite Duras e La democrazia di Andrea Balzola
(1999), Barbara Nativi per Io, Paola la commediante di Mario Luzi
(2000).
Senza dimenticare che l’impegno artistico era
strettamente legato a quello civile, come ha testimoniato di recente nell' intervista a Anna Monteverdi (da ateatro 25)
Nel prossimo numero di ateatro cercheremo di ricordare Marisa Fabbri
nella maniera migliore: il nostro piccolo e doveroso tributo alla sua
umanità, alla sua disponibilità e alla sua generosità.
Marisa Fabbri: una filmografia
Gli astronomi (2002)
Ybris (1984)
Milarepa (1974)
Non ho tempo (1973)
La Tosca (1973)
Diario di un maestro (1972)
Quattro mosche di velluto grigio (1971)
Sacco e Vanzetti (1971)
L'asino d'oro: processo per fatti strani contro Lucius Apuleius cittadino
romano (1970)
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Il teatro come arte del cambiamento
Un ricordo di Marisa Fabbri
di Andrea Balzola
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La scomparsa di Marisa Fabbri non lascia soltanto un grande,
incolmabile, vuoto per coloro che le sono stati amici e compagni d’arte, ma è
come l’inquietante sigillo messo a una stagione
straordinaria del teatro italiano. In lei la vita e il teatro
s’identificavano completamente, non per il narcisismo inesorabile delle prime
attrici (il suo era consapevole e ironico), ma perché il teatro per Marisa
era laboratorio sperimentale di un altro modo possibile di essere
e di un nuovo mondo possibile. Allora, nella vividezza della sua presenza che
comunque prevale sull’inaccettabilità della sua
assenza, voglio interpretare la sua uscita di scena, involontaria e dolorosa
ma ancora una volta coraggiosa (fino a una settimana prima di morire è stata
sulla scena), come l’ultimo atto di protesta contro un teatro che sembra aver
chiuso le palpebre e le porte alla ricerca pura, a quell’esigenza di
sperimentazione che è e sempre sarà la sua linfa vitale. Un
atto "metafisico" di dissenso nei confronti di un teatro malato di
codardia, sempre più "teledipendente" e "divodipendente",
incapace di nutrire e promuovere il nuovo ma esclusivamente aggrappato
ai monumenti della sua storia.
Mi torna in mente una frase di Dario Fo che piaceva anche a Marisa:
"Quando vedo i cartelloni delle stagioni teatrali italiane mi sembra di
essere al cimitero, ci sono soltanto autori morti."
E a chi diceva che il grande teatro in Italia non si
apre alla nuova drammaturgia perché questa non ha qualità sufficienti, Marisa
rispondeva che quest’atteggiamento era il segno dell’inguaribile
provincialismo delle istituzioni teatrali italiane, perché la drammaturgia
può crescere e maturare soltanto sul palcoscenico e attraverso di esso, le
produzioni, i registi e gli attori devono investire sul nuovo perché il nuovo
possa trovare le sue forme migliori, come accade nelle roccaforti teatrali
europee che coltivano i loro talenti alla pari di una preziosa risorsa. E
queste non erano solo parole, perché per decenni Marisa ha dedicato con
entusiasmo il suo tempo a formare nuovi attori, sia all’Accademia d’arte
drammatica di Roma sia nelle scuole fondate e dirette da Ronconi (dal
Laboratorio di Prato alla scuola del Teatro Stabile di Torino), per decenni
ha letto e valutato centinaia di copioni di giovani
autori nell’ambito del Premio Riccione diretto da Franco Quadri e di altre
giurie, cercando poi, in particolare nell’ultimo decennio, di trovare – non
senza fatica – le occasioni produttive per portare in scena testi teatrali
inediti di giovani autori italiani, o di contemporanei stranieri, o
volentieri affidandosi alla regia di giovani registi. Tra le molte cose che
ho imparato, lavorando insieme a Marisa,1 la più
rilevante è stata forse proprio la sua determinazione a rimettersi
continuamente in gioco, a non sostituire mai la forma con la formula e la
ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice della fama, della carriera
e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a gestire la sua
"icona" pubblica. La sua curiosità e la sua apertura intellettuale,
si combinavano in modo rarissimo con una cultura appassionata (costruita
appunto dalle passioni più che per erudizione), permeata da un sincero
impegno etico e politico, mai tralasciato, e con una eccezionale
capacità attoriale di immersione nella parola, nelle sue sfumature di senso e
di suono. E proprio su quest’ultimo terreno l’incontro con Ronconi,
all’inizio degli anni Settanta (ma già nel 1964 I lunatici di
Middleton li aveva apparentati), fu per lei una folgorazione, tanto che, dopo
essersi affermata con Strehler nei "favolosi anni Sessanta" del
Piccolo, e con Aldo Trionfo al Teatro Stabile di
Trieste, non disdiceva essere considerata "attrice ronconiana". Lei
era stata una delle anime protagoniste, insieme al grande Gian Maria Volontè,
dell’ala radicale del Piccolo, fautrice di una
scossa sessantottotesca alla quarta parete culminata con la fuoriuscita dal
Piccolo e l’avventura del Fantoccio lusitano, un duro testo
antifascista di Peter Weiss rappresentato nelle Case del Popolo prima che nei
teatri tradizionali. Il distacco da Strehler, che pure Marisa ha continuato a
stimare per tutta la vita come un Maestro, era non a caso avvenuto anche in
seguito all’intuizione che il regista demiurgo avrebbe preferito infine
rinchiudersi nel castello delle proprie creazioni, impegnato forse più a costruire
il proprio monumento che ad accogliere e interpretare le trasformazioni in
atto oltre le mura.
Di Ronconi invece ammira subito il titanismo, il gusto per le imprese
"impossibili", la fortissima personalità nell’impostare in chiave antinaturalistica una nuova modalità recitativa degli
attori, la straordinaria capacità di penetrare e quindi di rimodellare
teatralmente la partitura drammaturgica, e una concezione sperimentale dello
spazio e della macchina scenici. Da parte sua Ronconi riconosce in Marisa
l’attrice "intellettuale", capace di capire e di restituire nella
voce, nei gesti e nel corpo, tutta quella complessità di sfumature, di
motivazioni, di elaborazioni drammaturgiche e
registiche che costituiscono la dimensione originale, distintiva e "autorale"
del suo lavoro. Marisa, infatti, in una conversazione sul bilancio della sua
esperienza di "attrice ronconiana" mi diceva:2
"Luca non è tanto un regista, quanto un autore, e quando dico autore non
significa che lui prenda dei testi a pretesto e ne faccia una sua
opera, al contrario è autore nella misura in cui li legge così bene,
attraverso il significante riesce a captare tutto il loro spessore." Ronconi crea così per lei personaggi difficili e
indimenticabili come la Clitennestra dell’Orestea, il vecchio dottore di Ignorabimus di Holz, una delle regine del Riccardo
III, una delle Tre sorelle di Cechov, o la chiaroveggente in Affabulazione
di Pasolini, ma soprattutto reinventa per lei Le Baccanti di Euripide,
trasformandolo nel monologo di una spettatrice che rivive le azioni di tutti
i principali personaggi.
Proprio quelle Baccanti era lo spettacolo a
cui Marisa era più affezionata, la pietra miliare di riferimento della sua
ricerca di attrice e anche della sua esperienza di formatrice di tante nuove
generazioni di attori. Quella sua peculiare capacità di far vivere ogni
parola dall’interno (l’ammirava per questo anche il più spietato censore dei
suoi "colleghi", Carmelo Bene), maturata pienamente nella sua lunga
frequentazione ronconiana, voleva essere costantemente
nutrita, arricchita e rimessa alla prova, e dagli inizi degli anni Novanta
Marisa si avventura alla ricerca di nuovi percorsi drammaturgici. Il
punto di svolta è il monologo su un testo letterario di Italo
Calvino (il suo scrittore preferito): Dall’opaco, presentato a Parigi,
al Théâtre de l’Odéon, e poi ripetutamente ripreso, dove lo scrittore cerca
di raccontare ciò che appare irraccontabile, cioè l’esperienza visiva del
mondo. Questa sfida di Calvino, di "far vedere" con le parole, viene raccolta e rilanciata da Marisa che "fa
vedere" con la sua voce. Passando da un’esilarante Madre Ubu di Jarry
(in un registro comico grottesco ripreso anche nei Parenti terribili e
nella toscanissima Gallina vecchia di Novelli) a
un testo della Battaglini con la regia di Tiezzi, ai monologhi di Dacia
Maraini, di Marguerite Duras o di Heiner Müller, lei amava ripetere che il
teatro doveva ritrovare quella capacità di raccontare la contemporaneità,
così come accadeva nel cinema.
Forse il suo unico rammarico di attrice era proprio
quello di non aver avuto più opportunità di lavorare per il piccolo schermo,
dove pure aveva dato una prova straordinaria nel ronconiano John Gabriel
Borkman di Ibsen, e soprattutto per il grande schermo. Le sue esperienze
cinematografiche con Cavani, Montaldo, Dario Argento, De Seta fino al
recentissimo Gli astronomi di Roncisvalle, dove interpreta un
personaggio maschile (come più volte le era capitato
a teatro), le avevano lasciato il gusto di un’altra carriera possibile, per
la quale sarebbe stata altrettanto grande.
Ricordo in proposito che quando allestimmo lo spettacolo Democrazia (Lia e
Rachele) al Teatro di Roma, dove lei recitava i ruoli di due sorelle,
opposte e complementari, era previsto dal testo un dialogo finale tra i due
personaggi che dopo molti anni si incontrano, una
dal vivo e l’altra in video. In questo dialogo di Marisa con la sua immagine
(teatralizzato da un’originale soluzione scenica ideata da Ronconi), emergeva
non solo un’ardua sfida tra l’attrice e il suo doppio, ma anche il confronto
tra due chiavi interpretative diverse – una più passionale e generosa,
l’altra più asciutta e tagliente – che diventavano metafora
del confronto tra i due linguaggi teatrale e video e anche metafora delle due
anime attoriali di Marisa. Franco Quadri la riconosce "magistrale anche
sullo schermo in un finale che sposta il duello sul non detto e quindi anche
sulla sfida artistica: Marisa Fabbri da Lia e Rachele a
Eva contro Eva, in un delirio di applausi."3 Ed è
così che io voglio ricordarla.
NOTE
1 Per la messinscena di due miei progetti teatrali con
Marisa Fabbri unica interprete: il primo è un adattamento teatrale del diario
di Marguerite Duras Il dolore, prodotto dal Teatro Stabile di Torino,
con la regia di Mauro Avogadro (1997 e 1999); il secondo è Democrazia. Lia e Rachele, un testo dove due
sorelle sono interpretate dalla stessa attrice, scritto nel 1995 proprio
sull’ispirazione delle qualità attoriali di Marisa e a lei dedicato.
Il testo è andato in scena a Roma nel 1999, produzione del Teatro di Roma, a
cura di Claudio Longhi e con la supervisione di Luca Ronconi. Per i due
spettacoli cfr. il Patalogo 22,
Ubulibri, Milano, 1999.
2 A. Balzola (a cura di), Conversazione con Marisa
Fabbri sulla sua esperienza di attrice ronconiana,
pubblicata in Il castello di Elsinore, anno IV, n.18, 1993, Rosenberg
& Sellier, Torino.
3 Franco Quadri, in il Patalogo 22, op. cit. p.113.
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Dal testo alla scena, con Marisa
Il dolore di Marguerite Duras nello spettacolo di Andrea Balzola e Mauro Avogadro
di Andrea Balzola e Anna Maria
Monteverdi
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Il dolore della Duras
nell'adattamento teatrale di Andrea Balzola - che si
è avvalso della traduzione originale di Monica Rapetti - per la regia di
Mauro Avogadro, con Marisa Fabbri unica magistrale interprete, è stato
prodotto dal Teatro Stabile di Torino e ha debuttato il 2 marzo 1999 al
Teatro Carignano.
Il dolore: diario di un'attesa infinita (Andrea Balzola).
Marguerite Duras entra nella resistenza al nazifascismo nel 1943 insieme a
suo marito Robert Antelme e al loro inseparabile amico Dionys Mascolo. Il
gruppo di cui fanno parte è il "Movimento Nazionale dei Prigionieri di
Guerra e dei Deportati" guidato da François Mitterand con lo pseudonimo
di François Morland. Nel giugno del 1944 Robert Antelme e sua sorella
Marie-Louise sono arrestati dai tedeschi e deportati
a Dachau. Nella primavera del 1945, alla vigilia della resa tedesca,
Marguerite non sa se Robert è vivo o morto, aspetta il suo ritorno; al suo
fianco c'è Dionys, che diverrà dopo la guerra, il suo secondo marito e padre
del suo unico figlio, Jean.
Durante questi mesi Marguerite scrive un diario.
Decenni dopo ritrova questo diario nella sua casa di
campagna, non ricorda più di averlo scritto. Lo pubblica quarant'anni dopo,
nel 1985. Non può ricordarlo perché quelle pagine coincidono con l'esperienza
di un dolore assoluto: il dolore dell'attesa e il dolore del ritorno. Non sono parole, è respiro, battito cardiaco, ansia,
soffocamento, rabbia, angoscia, solitudine allo stato puro. Non è letteratura, è vita. Un delirio lucidissimo, perché in
queste pagine c'è anche una limpida radiografia di come le ragioni della politica post bellica abbiano prevalso anche in
quella circostanza su migliaia di vite umane, di come l'ipocrisia della
Destra gaullista abbia gestito la fine della guerra, celebrando se stessa e
tacendo sull'Olocausto. Soprattutto appare profetico l'invito della Duras a
non liquidare con la Germania nazista tutto il peso
di questo atroce crimine di massa ma a farsi carico di quella che è stata
innanzitutto, secondo le parole di molti deportati, una sconfitta dell'uomo.
Di tutti gli uomini. Il cosiddetto "dopoguerra" ha dimostrato che
una pace autentica non è mai giunta e che le radici dei "crimini contro
l'umanità" sono sempre fertilissime: gulag, desaparecidos, deportazioni
e genocidi etnico-religiosi, lager di bambini per pedofili, strumenti di
tortura esposti e venduti legalmente in apposite
fiere (vedi le denunce di Amnesty International e altri). Oggi siamo
informati di tutto ma digeriamo tutto. Il testo di Marguerite Duras non è
digeribile. Lei stessa ha dovuto dimenticarlo per poter continuare a vivere.
Lo ha pubblicato alla fine della propria vita, come dono del proprio dolore,
non alla memoria ma per un presente più consapevole.
L'adattamento teatrale (Andrea Balzola)
Ho pensato di portare sulla scena italiana Il
dolore nella convinzione che questa scrittura così profonda, insieme
immediata e visionaria, avesse una forza drammatica tale da far rivivere quel
dolore oltre la memoria dell'Olocausto, come coscienza del presente. Perché non c'è ritorno da quel dolore, finché deportazioni, esodi
di profughi, campi di concentramento e di sterminio continuerannno a
riprodursi. Questo spostamento al presente è originale, perciò ne ho
attualizzato in alcuni passaggi, il tempo verbale e ho tolto all'inizio del
testo teatrale i riferimenti cronologici e geografici in modo da creare una attesa "assoluta", al presente, lasciando
trapelare, poco alla volta, gli indizi della connotazione spazio-temporale.
Fin dall'inizio, l'adattamento teatrale è stato concepito per Marisa Fabbri,
strordinaria interprete di un teatro inteso come laboratorio artistico della
coscienza contemporanea e la redazione finale del testo è il risultato di un
work in progress di interazione tra ipotesi
drammaturgica e verifica interpretativa.
Con lo stesso spirito Mauro Avogadro regista molto sensibile alla qualità
letteraria e ai temi dell'impegno civile nella drammaturgia contemporanea, ha
reso possibile l'allestimento dello spettacolo. Il mio lavoro di adattamento è stato ispirato al massimo rispetto del
senso del ritmo della scrittura durasiana, perciò mi sono avvalso di una
nuova traduzione originale di Monica Rapetti. Mi sono limitato perlopiù a
ridurre la lunghezza del racconto e a rimontarne alcune parti,
drammatizzandole in funzione della recitazione di una sola interprete. Ho
diviso il continuum diaristico del racconto in due parti e cinque
quadri: "L'attesa (tre quadri) e "Il ritorno" (due quadri),
immaginando una scena molto essenziale e non naturalistica, con un doppio
sonoro - affidato alla maestria di Hubert Westkemper - che interagisce come
traumatica memoria esterna con il soliloquio dell'attrice.
La tortura della speranza (Anna Maria Monteverdi)
Viene spontaneo l'accostamento di questo testo della Duras con scrittori che
di torture, reali o immaginarie, hanno parlato – Villiers de L'Isle d'Adam,
l'uruguaiano Mario Benedetti – o registi e interpreti come il Living Theatre
che quel dolore lo hanno presentato in scena con una crudeltà che è
inscritta, innanzitutto, nell'evidenza della sua esistenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come una ferita aperta non ancora
rimarginata, attraverso una scrittura estrema, impossibilitata a raccontare
di più e oltre quell'essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha
prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente
concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile,
insostenibile, come la scossa prodotta dall'elettrodo conficcato nei genitali
del torturato, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guerre, alle
vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale,
proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria
storica dell'Olocausto.
La scrittura della Duras non è solo scarna. È carne
viva, è materia cellulare che respira colta nella sua distruzione quotidiana:
partecipe in prima persona del dramma, ha acquisito la facoltà di sentire, di
ansimare, di soffrire. Passa dalle sue breve frasi,
a brandelli come il corpo che arriva dal lager, tutta la gravità di un'attesa
che è già dolore. Di quel corpo inerme, privato di tutto, narra
le vicende sanguigne, i bisogni fisici, solidarizza con ogni porzione
della sua forma scheletrica, con il suo istinto primario di conservazione (la
ricerca del cibo, la persistenza della memoria). Il rigore della forma con
cui la Duras dà corpo a una vicenda illeggibile è
crudeltà nel senso artaudiano del termine: è la vita in ciò che essa ha di
irrappresentabile; le parole comunicano quella verità inaudita della
progressiva deriva dell'uomo a tollerare l'intollerabile.
Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato
elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di
una lotta senza tregua alla terribilità dell'attesa di una morte o di una
vita, attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle
pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere. Tutto accade
in una stanza, ridotta ai suoi segni essenziali, come quell'esistenza di cui
va a raccontare l'immobilità generata dalla lunga permanenza sul baratro
dell'attesa.
Non vediamo materialmente il ritorno dell'uomo dal campo di concentramento ma
le parole della Duras – e la voce della Fabbri –
sono altrettanto concrete, fisiche e ripugnanti nelle loro descrizioni, come
lo è il cadavere – "la forma" – da resuscitare. Nella resa teatrale
non rimane più alcuna traccia di un tempo determinato: quel dolore che ci
riguarda – metafora di un oggi/sempre – racconta di sofferenze antiche e di
tragedie recenti e si traveste ora nell'agonia dell'attesa, nel supplizio
della speranza, ora nel terribile atto di accusa di
chi lucidamente valuta l'esperienza del dramma personale alla luce di una
tragedia globale che chiama in causa l'uomo, o meglio l'assenza di ogni
umanità.
Contro l'abitudine all'indifferenza, contro l'ingessamento della memoria,
contro la mutilazione del passato, nel racconto della Duras, il ricordo del
dolore quale appare nella scrittura scenica di Andrea
Balzola, si impone come cicatrice che segna la coscienza collettiva e insieme
come valore da conservare, da condividere e comunicare. Nel presente.
(Questi tre testi sono
stati pubblicati in A.M.Monteverdi, La maschera volubile, Corazzano-Pisa,
Titivillus, 2000; il testo La tortura della speranza è stato
pubblicato anche in "Baubo", 2000; )
Un ambiente sensibile e
perturbante
Laura Gemini, L’incertezza
creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance
artistiche, Franco Angeli editore, Milano
2003.
di Andrea Balzola
|
L’incontro tra le nuove tecnologie della comunicazione e la
ricerca artistica, sia generata dall’area delle arti visive e sia da quella
del teatro, ha prodotto un impatto straordinario non solo sulla
trasformazione dei media e delle arti in
questione, ma anche sugli scenari presenti e futuri delle interazioni
sociali. Il laboratorio dell’arte e il laboratorio delle nuove tecnologie
si connettono e si determinano reciprocamente, sperimentando nuove forme di espressione e di comunicazione. E’ questo un fenomeno
che dovrebbe essere di primaria attenzione in un mondo sempre più permeato
e ridefinito dall’innovazione tecnologica, ma paradossalmente della
tecnologia (letteralmente: logos, quindi pensiero e linguaggio,
della tecnica) si continua a privilegiare
l’aspetto operativo della tecnica rispetto ai modelli di pensiero e ai
mutamenti linguistici che esso contiene e induce. Il risultato, a livello
di una socialità più diffusa, è una costante estensione del dispositivo
tecnologico di comunicazione, per prevalenti ragioni di mercato,
inversamente proporzionale allo sviluppo di una creatività di pensiero e di espressione. Ciò che contrasta questa crescente
forbice tra le potenzialità tecniche di comunicazione e la creatività
collettiva, è proprio la sperimentazione artistica (soprattutto se
accompagnata da una riflessione etica e filosofica), che da sempre ha la
virtù "magica" di trasformare la tecnica in linguaggio e la capacità
di unire la produzione di senso al divertimento.
Laura Gemini, ricercatrice e docente alla Facoltà di Sociologia
dell’Università di Urbino, ha lavorato proprio su
questi temi, realizzando un libro molto utile, che ripercorre con un taglio
sociologico innovativo lo sviluppo dell’idea e delle pratiche performative
dalle origini rituali del teatro fino alle performance interattive e al
tecnoteatro contemporanei. Più precisamente, la Gemini
unisce in modo puntuale e originale le teorie recenti dei sistemi sociali, gli
studi di biologia cognitiva, l’analisi dei media con l’approccio estetico
al divenire della ricerca artistica dalle avanguardie storiche alle arti
performative multimediali. Un percorso che coinvolge inevitabilmente una
riflessione sui modelli cognitivi e comportamentali,
oggetto di studio antropologico e scientifico, e fa emergere tutta
la complessità dell’arte del Novecento, che rompe gli argini dei generi e
delle classificazioni. Forse proprio per sottolineare
questa peculiarità sperimentale, l’autrice sceglie un titolo molto
azzeccato (che cita Baudrillard): "l’incertezza creativa". Un’incertezza come segno non di debolezza o di confusione ma al
contrario come capacità di interpretare e rivelare le contraddizioni del
sociale e di rielaborarle creativamente. Incertezza come segno di apertura: diacronica, perché le arti performative
mettono l’accento sul processo generativo dell’opera più che sull’opera
stessa, in una consapevolezza dell’incompiuto che vale come necessità e
garanzia di continuità; sincronica, perché le arti performative sono arti
della relazione "hic et nunc" tra linguaggi differenti e tra
performer e pubblico. Qui sembra trovarsi il nucleo centrale
dell’interrogazione della Gemini: l’arte performativa che incontra i mass
media e i new media tecnologici, quali modelli
innovativi di comunicazione ed espressione genera? In che modo la
performance divenuta tecnologica mette in discussione la tradizionale
relazione di compresenza tra evento performativo e
ricezione, individuale e collettiva? Come mutano, infine, in questa
prospettiva di ridefinizione tecnologica dei linguaggi, i modelli
comunicativi e creativi di interazione sociale?
Sono domande centrali e molto impegnative a cui
ovviamente l’autrice non pretende di rispondere con argomenti definitivi,
ma accompagnandoci passo dopo passo attraverso le principali tappe
evolutive delle performance artistiche, soprattutto teatrali.
La tesi che viene verificata sul campo è quella
dell’esistenza di un "rapporto circolare fra la capacità perturbativa
e irritativa dei media rispetto all’arte e dell’arte rispetto ai
media". Alla fine di questo percorso, il lettore attento riesce a
focalizzare alcuni principi particolarmente importanti e fecondi di
sviluppi possibili, tra cui uno mi pare particolarmente rilevante: le
pratiche performative tecnoteatrali o tecnoartistiche più evolute
dimostrano che non c’è contraddizione tra
tradizione (ad es. la cultura orale, la narrazione mitologica, la
simbologia archetipica) e innovazione (la multimedialità, l’ipertestualità,
l’interattività, la telepresenza). Tramite un progressivo coinvolgimento
partecipativo della ricezione, che recupera l’esperienza plurisensoriale
all’interno stesso del processo generativo della performance, l’arte
prefigura la creazione di un "ambiente sensibile" universale dove
la molteplicità dei modelli creativi della comunicazione interagiscano
liberamente senza rimozione del corpo naturale e senza timore
dell’interfaccia tecnologico. Che poi questo modello possa essere utopico e
venga schiacciato o meno da quello puramente
mercantile è purtroppo un’altra storia e un’altra sfida.
br>
Laura Gemini, L’incertezza creativa. I
percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Franco Angeli editore, Milano 2003, 192 pagine,
euro 15,00.
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N.46 (06.12.02)
Carmelo dopo Carmelo
Un convegno e una mostra dedicati
a Carmelo Bene
di Andrea Balzola
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A Torino, il progetto in tre puntate dedicato al grande artista pugliese:La vita e le opere di Carmelo Bene si è concluso
con una mostra (a Palazzo Bricherasio dal 24 ottobre al 10 novembre) e il
convegno Le arti del Novecento e Carmelo Bene (presso la Galleria
Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 24 al 26 ottobre), dopo aver
presentato in febbraio e marzo 2002 una completa rassegna cinematografica,
video e sonora. L’intera iniziativa è stata organizzata dall’Associazione
torinese ORSA (Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti), animata da
Edoardo Fadini, storico avventuriero del teatro sperimentale italiano e amico
di lungo corso di Carmelo Bene, con la collaborazione dell’Università di
Torino, del Centre National de Dramaturgie di Parigi, del Centro Studi del
Tetro Stabile di Torino, dell’ASAC della Biennale di Venezia, e soprattutto
della neonata Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene di Otranto.
Quest’ultima Fondazione è l’ultimo atto che Bene ha consegnato ai posteri,
scrivendone lo statuto sul suo testamento e nominando segretaria la sua
ultima convivente Luisa Viglietti e presidente Piergiorgio Giacché, nonché come membri permanenti i rappresentanti del Comune
di Otranto e della Provincia, donando inoltre il suo prestigioso palazzo
barocco di Otranto e tutto il suo patrimonio, artistico e non. Su questa eredità si annuncia però una battaglia legale tra i
famigliari di Bene (moglie, figlia e sorella) e la Fondazione, che
attualmente sta ultimando l’inventario del lascito. Un’eredità
materiale perciò assai spinosa che sembra alimentare anche postmortem lo
spirito polemico che ha sempre accompagnato C.B. e in qualche modo fa il paio
con la controversa e complessa eredità artistica da lui lasciata.
Proprio per discutere di quest’ultima eredità, sono stati chiamati a intervenire molti collaboratori artistici, critici e
studiosi di Bene, con l’idea originale, anche se di ardua regia, di
intrecciare le testimonianze dirette dei suoi compagni d’arte e di vita con
approfondimenti teorici sui diversi e molteplici aspetti dell’opera di C.B..
Principale voce narrante del convegno è stata Lydia Mancinelli, l’attrice che
ha condiviso un ventennio di vita e teatro con Carmelo, i suoi gustosi
aneddoti "dietro le quinte" si sono mescolati a quelli di altri
attori: Cosimo Cinieri, che ha rivendicato l’importanza della sua affinità
"etnica" con C.B., Luigi Mezzanotte e Silvia Pasello che hanno affettuosamente
e malinconicamente ricordato il loro debutto d’attori sotto l’impronta di un
Maestro che non voleva esserlo. Con tono più ironico sono
invece intervenuti il pittore di scene Tonino Caputo, altro complice
"etnico" degli esordi e Salvatore Vendittelli, il primo scenografo
di Carmelo, dal 1961 al 1971, il quale ha raccontato la genesi delle
scenografie dei primi spettacoli. In particolare
l’originalissima antologia teatrale di poeti minori italiani Gregorio:
cabaret dell’800 del 1961, il cui finale con gli attori ammutoliti da un
tampone tanto era piaciuto al Living che se n’era ispirato per la scena di un
suo spettacolo. Vendittelli ha raccontato una
collaborazione molto intensa fino alla rottura durante il progetto della Salomé
cinematografica (poi realizzato da Gino Marotta), dalle sue parole è
emersa la straordinaria capacità di Bene di intuire e stimolare le
potenzialità creative dei suoi collaboratori e l’altrettanto irriducibile
vizio di appropriarsene quale artefice unico e supremo. Mauro Contini, il
montatore di fiducia di C.B., ha descritto le
intuizioni, la sensibilità e il rigore con cui Bene affrontava l’uso e la
sperimentazione degli aspetti tecnici, condizione per lui necessaria
all’esplorazione espressiva. Se il drammaturgo Franco Cuomo ha ricordato la
nascita, nutrita da infiniti cocktail, della riscrittura del Faust (Faust
o Margherita, 1966) assai poco compreso dalla critica e censurato dai
burocrati, eppure già molto significativo della vena
grottesca dell’autore Bene, Luporini si è soffermato con la sua penetrante
puntualità sulla collaborazione musicale con quella insostituibile voce
polifonica che ha resuscitato i grandi poeti russi e italici. Sylvano
Bussotti, un po’ a disagio in questo contesto
celebrativo del genio di C.B., ha invece voluto ricordare il grande assente
dal punto di vista di un altro genio, cioè lui, come ha tenuto più volte a
precisare. Raccontando la prima apparizione al suo cospetto di un Carmelo
performer giovane e seminudo, e poi di un costante scambio epistolare e
artistico all’insegna di un rispecchiamento reciproco tra geni. In questo
scambio, tra gli altri aneddoti, veniamo edotti anche di una reiterata e vana
insistenza di C.B. affinché Bussotti si facesse
tramite di un suo incontro con Beckett, misantropo proverbiale. Nicolini,
ideatore dell’allegra eppur lucida stagione effimera dell’effimero, ha invece
ricordato la sua complicità con la "leggerezza" provocatoria del
Bene, primattore di attentati alla mummificazione
istituzionale dell’arte e della cultura italiane.
Sull’altro versante, quello dei critici e degli studiosi, costretti a una parte meno conviviale e divertente, ma caricati
della responsabilità di cominciare a tirare le fila del complesso arazzo
artistico beniano, ci sono state alcune importanti defezioni rispetto
all’affollatissimo programma d’interventi del convegno, ma anche numerosi
contributi di rilievo. Tra i primi, quello di Franco Quadri, che ha
riconosciuto, analizzato e valorizzato fin dagli esordi il lavoro di C.B., collocandolo precocemente sul versante storico-critico,
senza le incertezze o le ostilità di molti suoi colleghi, come uno dei
principali protagonisti dell’avanguardia teatrale italiana. Sergio Colomba ha
concentrato la sua attenzione sul rovesciamento operato da Bene nel rapporto
tra artista e critico, dove la tradizionale sudditanza del primo si trasforma
in una feroce ma anche stimolante negazione dei
contenuti e della stessa funzione (politica, culturale e di mercato) della
critica. Giorgio Sebastiano Brizio, critico teatrale e d’arte, ha privilegiato la vena barocca dell’opera di Carmelo, come
esempio di una dialettica forse insolubile tra istinto naturale e artificio
creativo. Una testimonianza particolare sul primissimo Carmelo Bene, quello
che appena ventiduenne esordiva con il Caligola di Camus (1959), è
venuta dal critico d’arte Paolo Levi che ha ricordato l’amicizia che in
quegli anni lo aveva legato a Bene e al regista Alberto Ruggiero, dimenticato
regista del primo Caligola con Carmelo.
Mentre Sergio Fava, curatore dell’opera poetica di
Carmelo, sì è soffermato in una dotta esegesi del suo lato autorale forse
meno noto, Claudio Meldolesi ha approfondito il carattere peculiare dell’arte
dell’attore Bene e del suo superamento aldilà della rappresentazione, Antonio
Attisani ha rilevato come l’opera di Bene non sia da considerare uno
straordinario fenomeno chiuso su se stesso, ma abbia segnato un punto di non
ritorno, una netta linea di demarcazione dell’avanguardia teatrale. Lorenzo
Mango ha invece attentamente approfondito uno degli aspetti più trascurati
dalla critica italiana, cioè il lavoro di smontaggio
e riscrittura della macchina drammaturgica. Italo Moscati ha invece
polemicamente proposto di spogliare l’opera di Bene di
tutti i filosofismi di cui lui stesso aveva amato rivestirla e corazzarla,
soprattutto nell’ultimo ventennio, per la vanità di mettere un sigillo di
garanzia intellettuale alla sua opera, già postuma in vita. In questo modo Moscati, sottolinea giustamente come il
primo periodo "ruspante" di Bene abbia avuto una straordinaria
vitalità creativa tutta interna al teatro, dove il nucleo della sua identità
poetica si era già formato prima delle successive "sovrapposizioni"
teoriche, ma condannando il fumo filosofico che lo avrebbe poi circondato fa
di tutta l’erba un fascio. E’ infatti innegabile che
l’incontro, l’amicizia e il confronto con dei giganti del pensiero come
Lacan, Foucault, Deleuze e Klossowski, tra la fine degli anni Settanta e gli
anni Ottanta, sia stato veicolo di un affinamento e di una fondazione
teorica, per lo meno estetica, tutt’altro che irrilevante, sia pure rispetto
a un processo artistico già maturo. Maggiori riserve
possono piuttosto riferirsi alla stagione ultima, in cui Bene edificava il
suo monumento all’assenza con l’ausilio di una trincea teorica piuttosto
estenuata ed estenuante. Ancora più controtendenza è stato l’intervento
di Ruggero Bianchi, che nel nome di una passione delusa per il primo
Bene, ha invitato a non celebrare acriticamente il suo genio, ma anzi a
metterlo sotto processo critico per distinguere le qualità realmente
innovative della sua opera dai molti errori e contraddizioni che le avrebbero
inquinate, contestando soprattutto la sua idea, di matrice romantica e
decadente, dell’artista chiuso ermeticamente nella sua torre d’avorio e
isolato dalle nefandezze del mondo. L’unica presenza internazionale del
convegno (Jean Paul Manganaro, curatore della prossima edizione francese
delle opere di Bene, ha inviato una relazione sul
"Corpo devastato di C.B.") è stata quella di Camille Dumoulié,
docente dell’università di Nanterre e una delle ultime acquisizioni della
squadra filosofica di Carmelo (quella da lui riunita alla Biennale di
Venezia). Con la sua relazione "C.B. e lo splendore del vuoto" ha
limpidamente precisato, con impliciti riferimenti ai principi filosofici
orientali già cari a John Cage, come doveva intendersi la vocazione ultima di
Carmelo allo svuotamento della scena e alla cancellazione dello spettacolo.
Infine, alcuni interventi hanno riportato l’attenzione su una parte meno nota
e studiata dell’opera di Bene, ma altrettanto importante e
per certi versi anche più innovativa del lavoro teatrale: le regie
radiofoniche (spesso poi riutilizzate parzialmente o integralmente come
colonne sonore degli spettacoli teatrali) e televisive. Sulle prime, ha
offerto la sua testimonianza Alessandro D’Amico, oggi Presidente
dell’Istituto degli Studi Pirandelliani e all’epoca referente di C.B. in Rai,
raccontando la rivoluzione tecnica, stilistica e anche comportamentale
portata negli studi Rai, trasformati da Bene in accampamenti e banchetti,
laboratori di inedite e fecondissime alchimie vocali
e sonore. Roberta Carlotto, che è stata la lungimirante e coraggiosa
traghettatrice produttiva dei protagonisti dell’avanguardia teatrale italiana
(Quartucci, Ronconi, Bene) nella rai riformata degli anni Settanta, ha
descritto in particolare la problematica avventura televisiva di Bene: Majakowskij,
Blok, Esenin, Pasternak, Un Amleto di meno, Riccardo III e
l’incompiuto Otello. La relazione del regista Rai Sergio Ariotti si è
concentrata proprio sul racconto delle vicissitudini della realizzazione
dell’Otello televisivo, alle cui riprese il sottoscritto ha potuto
assistere e che hanno segnato – come ho spiegato nella mia relazione – un
momento fondamentale anche se ancora misconosciuto di esplorazione
artistica e di rifondazione di un nuovo linguaggio televisivo. Il convegno è
stato accompagnato da una mostra un po’ improvvisata di vecchie fotografie,
locandine e articoli, dov’erano però visionabili
alcune opere video e cinematografiche di Carmelo e i bei costumi di scena del
Pinocchio. Altre proiezioni inedite o quasi hanno arricchito il
convegno, tra le quali le surreali riunioni del Consiglio di
Amministrazione della Biennale di Venezia, dove un Bene più che mai
attore-imbonitore arringava gli attoniti membri con la giustificazione
filosofica del suo azzeramento della Biennale Teatro stessa, ultima occasione
volutamente mancata da Bene per creare un evento autentico nella desertificazione
del teatro italico. A conclusione di questo convegno, anarchico ma comunque foriero di notizie e spunti di riflessione (si
prevede in proposito una pubblicazione degli atti) sono state presentate o
proposte alcune iniziative degne di nota. Gioia Costa ha illustrato il
progetto in corso da parte della rivista e sito Romaeuropa News di
raccogliere organicamente le testimonianze dei compagni d’arte e di pensiero
di C.B. per arrivare a una prima pubblicazione di
riflessione, bilancio e rilancio della sua opera. Edoardo Fadini ha segnalato
l’intenzione della sua Associazione di proseguire nella raccolta di materiali
documentari in collaborazione con il Dams dell’Università di Torino, che
vuole dedicare un progetto di studio di lungo respiro all’opera di C.B., e in collaborazione con la Fondazione L’Immemoriale di
C.B., di cui Giacché ha illustrato l’ipotesi di alcune prossime iniziative:
l’organizzazione di un concerto di musica barocca in occasione del primo
anniversario della morte di C.B., l’organizzazione di alcuni seminari con i
tecnici che hanno collaborato con lui e che sono quindi depositari concreti
delle sue sperimentazioni tecnico-creative, il restauro e la digitalizzazione
di tutte le opere e documenti audio, cinematografici e video, la riedizione
di opere ormai introvabili e l’esportazione internazionale dell’intero lavoro
di Bene. Progetti questi che speriamo possano essere
effettivamente realizzati, incontrando l’adeguato sostegno di sponsor
pubblici e privati. Dai presenti al convegno è venuto anche un accorato
appello in favore di un altro grande protagonista
dell’avanguardia teatrale italiana, amico e compagno di strada di C.B., Leo
De Berardinis, la cui vita è sospesa a un filo ormai da molti mesi.
Considerando le spese sempre più insostenibili di assistenza
sanitaria e dei tentativi di cura, i presenti hanno richiesto a tutte le
compagnie teatrali italiane, per la stagione in corso, di dedicare a Leo
l’incasso di una serata di spettacolo. Un contributo generoso e anche
doveroso di solidarietà a una figura ormai storica
del teatro italiano. (ma sull'iniziativa a favore
di Leo e sui suoi sviluppi, vedi il forum Fare un teatro di guerra).
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N.44 (28.10.02)
Un Mediterraneo interattivo
Le nuove videoinstallazioni
interattive di Studio Azzurro a Castel S. Elmo di Napoli
di Andrea Balzola
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Il 19 ottobre, nel suggestivo e labirintico castel
Sant’Elmo sulla collina del Vomero, si è inaugurata la mostra "Meditazioni Mediterraneo":
cinque videoinstallazioni interattive ideate e realizzate da Studio Azzurro,
prodotte dalla Maison Hermès in collaborazione con la Soprintendenza Speciale
per il Polo Museale di Napoli. Un viaggio d’immagini e di
suoni nella mappa del mediterraneo, in particolare nel faccia a faccia tra il
Golfo di Napoli e la costa nordafricana. Un viaggio
che sarebbe piaciuto a Fernand Braudel, il primo storico a mettere in luce la
vitalità complessa, dirompente e assai longeva delle civiltà del Mediterraneo.
Una stratificazione di identità culturali e
linguistiche, ma anche – come suggerisce Studio Azzurro – di materie, suoni,
colori, odori e gesti. All’ingresso della mostra, in una sala circolare, 16
monitor scandiscono con ritmo rapido e dettagli di
mani e materie lavorate, le impronte video dei mestieri artigianali che
plasmano l’humus di una civiltà minacciata, ma non ancora estinta dalla
globalizzazione. Una mappa diaproiettata di questo mediterraneo introduce il
visitatore al percorso vero e proprio, è l’ingrandimento di uno dei disegni
progettuali di Paolo Rosa che traccia le traiettorie dei venti, ma anche delle vie del
sale, della seta, delle spezie e delle armi. Anche in questa mostra, viene confermato e sviluppato il carattere distintivo
della ricerca artistica di Studio Azzurro, che attraversa ormai da un
ventennio i territori delle arti visive, del video, del cinema e del teatro,
senza farsi intrappolare in nessuno di essi, cercando invece – e spesso
trovando – una chiave originale d’intreccio dei diversi codici espressivi.
L’occasione espositiva diventa allora una messa in scena dei linguaggi, dove
lo spettatore diventa attore di un percorso percettivo e cognitivo inedito e
interagisce con i percorsi creativi degli autori, aperti alle vitali
metamorfosi del senso e dei sensi. La strategia è limpida: creare nei luoghi
prescelti una rete videosonora di cattura dell’essenza degli elementi
naturali e dell’opera degli uomini del mediterraneo, aggregando i nuclei tematici in micronarrazioni (i gesti che danno forma alla
materia, il confronto/scontro tra gli elementi, l’intreccio babelico delle
lingue che si sublima nel canto, etc.), poi fare un rigoroso lavoro alchemico
di distillazione e trasformazione dei materiali con un’innovativa
postproduzione digitale, infine ricomporre nell’interfaccia espositivo le
tappe di quel viaggio, allestendo una costellazione di paesaggi
"sensibili" (interattivi) che ci chiamano dentro l’immagine e il
suono e provano a fare di noi, almeno per un momento, dei viaggiatori
sinestetici. Ripercorriamo queste tappe.
1. "Il vento porta i profumi".
E’ forse la videoinstallazione più poetica e originale della mostra. Qui il
video interpreta il paesaggio e un finissimo lavoro di postproduzione
digitale ne ridipinge luci e colori, ma anche ne plasma la materia, come se
l’immagine di per sé immateriale trovasse una nuova consistenza mutante.
L’agente di questa mutazione è uno sciame d‘api virtuale (attivabile dallo
spettatore) che "attacca" il paesaggio, sfigurandolo. Nei quadri
che si susseguono su doppio schermo, appaiono deserto e campi e un’immagine emblematica del percorso di Studio Azzurro: quella di un
pittore che dipinge "en plein air" un paesaggio mediterraneo, le
sue pennellate scivolano sul cielo. Qui pittura, fotografia, cinema, video e
computer si stratificano in una sola immagine in costante trasformazione. E’
ovviamente un omaggio a Van Gogh, e anche al "sogno" cinematografico
di Kurosawa che faceva rivivere il grande pittore
olandese dentro il suoi stessi quadri. Non a caso, l’immagine simbolo della
mostra, che compare sulla copertina del libro-catalogo e sulle locandine, è
un cavalletto in riva al mare che supporta un mirino elettronico, citazione
vertoviana ma anche omaggio alla pittura "en plein air" che da Van
Gogh in poi s’immerge nel paesaggio per rubarne l’anima.
2."Il vuoto scritto dalla luce".
Attraversando una traccia luminosa interattiva, le inquadrature su doppio
schermo di un deserto o di una spiaggia con ruderi, si avvicinano
bruscamente, quasi risucchiandoci nel vuoto della grande
sabbia e della grande acqua.
3. "La terra genera l’aria".
Attirati dal vapore e dal fumo che scaturiscono dalle
ferite incandescenti del Vesuvio (su una videoproiezione verticale creata da
tre schermi), il peso del nostro passo fa vibrare l’immagine, indizio
inquietante dell’instabilità della terra, vibrazione tellurica generata da
vibrazioni tattili e sonore, che rievoca le avventure di uno strano
vulcanologo, un ascoltatore di vulcani.
4. "Il colore si annoda al suono".
Ancora il nostro passo può calpestare un tappeto "sensibile" (dove
dei sensori nascosti attivano le videoproiezioni), e mutare così una
tavolozza di colori e sapori che attraversano le
porte dei sensi e creano una spirale di suoni, un canto.
5. "L’acqua si ferma nel sale".
Un’altra videoproiezione interattiva su due schermi, rivela
come il deposito del sale sia la relazione alchemica tra mare e terra.
Al centro di questo circuito, su una delle ripide scale che portano ad
affacciarsi sul golfo di Napoli, Studio Azzurro ha voluto creare una
dissonanza (che forse avrebbe meritato maggior rilievo simbolico) all’interno
di questo sua sinfonia audiovisiva del mediterraneo:
"Eveline". Cinque "cartoline" video in bianco e
nero che ripropongono la terribile documentazione
dello strazio contemporaneo: la marcia infinita dei profughi affamati, le
case distrutte dalla guerra con il massacro dei civili, la cementificazione
del paesaggio, i carri armati nelle strade, le navi carretta dei clandestini.
Un menu del dolore che continua a essere servito
quotidianamente sullo schermo sempre troppo distratto e indifferente delle
nostre case. Ed è anche con quella sofferenza che noi dovremo imparare ad essere più interattivi.
Meditazioni Mediterraneo
In viaggio attraverso cinque paesaggi instabili
Castel Sant’Elmo, via Tito Angelini, 20 – Napoli
Dal 20 ottobre al 17 novembre 2002
Apertura tutti i giorni, tranne il lunedì, 9-18
Catalogo pubblicato da Silvana Editoriale
Sito web: www.studioazzurro.com/mediterraneo.
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N.38 (10.07.02)
Symphonie Videofantastique
Berlioz e la Fura dels Baus
di Andrea Balzola
Prima mondiale al Teatro di
Verdura a Palermo (28 e 29 giugno 2002)
Foto Studio Camera.
Scheda tecnica dello spettacolo:
Regista Pep Gatell, Direttore
musicale del palcoscenico: Jaume
Cumplido; Produzione esecutiva: Roberto Villalon; Preproduzione: Nadala
Fernandez; Direzione tecnica e scenografica: Lluis Monteagudo; Realizzatore
video: Jordi Joachim Recort; Light designer: Jaime Llerins; Coreografo:
Pere Jané; Scene e costumi: Mabel Gutiérrez; Tecnico
luci: Lluis Marti; Tecnici video: Joan Rodòn e David
Larrull (BAF); Audio consulting: Marc Sardà; Trapezista Fura: Pilar
Cervera; Attori: Vidi Vidal, Ramòn Tarés, Tatin, Ivan Altimira, Neus
Quimansò, Gloria Ràmia e Pirana; Comparse del Teatro Massimo; Direttori
artistici della Fura: Pep Gatell, Miki Espuma, Jurgen Muller, Alex Ollé,
Carlos Padrissa, e Pera Tantinà; Orchestra del Teatro Massimo, diretta
da Jean Claude Casadeus.
Foto Studio Camera.
Hector Berlioz innamorato, e da tale amore reso poi furioso, incontra la Fura dels Baus in una delle
sinfonie più visionarie della storia della musica.
L’incontro è avvenuto in anteprima mondiale nello splendido scenario di fontane
e alberi del Teatro di Verdura a Palermo, nell’ambito della stagione estiva del
Teatro Massimo, con fuochi d’artificio finali. Un incontro favorito dalle
imminenti celebrazioni del musicista francese e doppiamente inedito: per l’idea
di associare alla sua opera più nota la dimensione visiva di un’azione teatrale
combinata al video, e perché questo allestimento apre
un nuovo percorso della Fura in un territorio molto più composto e tradizionale
come quello del teatro musicale. Una Fura quindi per la prima volta contenuta -
e trattenuta - in una canonica scatola scenica, per di più occupata
dall’orchestra diretta da Jean Claude Casadeus, e particolarmente attenta a non
prevaricare sulla musica. Anche l’inserimento del
video sotto forma di un fondale con un grande schermo che campeggia alle spalle
dell’orchestra, non sembra a prima vista discostarsi da una pratica ormai
consolidata di concepire il video come scenografia. Poi il fantasioso uso delle
cantinelle per calare a sorpresa trapezisti, oggetti
scenici, e schermi, reinventa una tridimensionalità della scena che avvolge la
musica senza mai oscurarla. Si realizza così una sorta di incontro
del destino, dove l’immaginario cyberbarocco della Fura catalana, con il video
e un ensemble di trapezisti e attori, dà immagine e corpo alla fantasia
oppiacea - oggi diremmo psichedelica - del compositore francese. In effetti,
tra i principali riferimenti letterari di Berlioz si trovano proprio le celebri
“Confessioni di un oppiomane” di Thomas de Quincy, e l’intento tematico appare dichiarato fin dal sottotitolo della
sinfonia: “Episodi della vita di un artista”, cioè quello di raccontare
musicalmente il viaggio di un artista nell’oscuro territorio onirico dei
dannati dell’amore. Un viaggio permeato da una visione
romantica e simbolista dove la musica - non meno della poesia - è l’atanor alchemico
che trasforma la follia in ispirazione, esplorazione dell’abisso e dell’estremo
per nutrire di verità e di forza espressiva l’anemia delle arti. Nel
programma di sala che accompagnava il debutto della sua sinfonia, avvenuto il 5
dicembre 1830, Berlioz titolava in modo significativo
i cinque movimenti che la componevano: Reveries, passions; Un bal; Scene aux
champs; Marche au supplice; Songe d’une nuit du Sabbat. Ed è da questi
motivi tematici che scaturiscono le sequenze
spettacolari ideate dalla Fura, dense di riferimenti pittorici, cinematografici
e letterari, venati da un’irriverente ironia, non sempre raccolta dal pubblico
talvolta troppo posato delle platee musicali. Il nucleo visivo conduttore del
video vede contrapporsi il compositore stesso, che ha un aspetto angosciato,
iperteso e stralunato (un po’ alla Marty Feldman), e l’icona edulcorata e
irraggiungibile della sua bella.
Foto Studio Camera.
Nel primo movimento, la prima folgorante visione di Hariette sorge dai fumi
dell’oppio, con divertite citazioni teatrali e cinematografiche di Frankestein
e Dracula, figure mitiche della corruzione romantica dell’anima e del corpo divenute qui efficaci maschere ironiche di un desiderio
ossessivo, vorace e morboso che diventa infine mostruoso. Nel secondo
movimento, lo sguardo voyeuristico di Berlioz, che intravede l’amata danzare in
una festa, si moltiplica in una serie di schermi mobili e sospesi che si
sovrappongono fra loro, creando un contrappunto visivo tra immagine della
percezione, immagine del desiderio e immagine della memoria. Una
spirale visiva che culmina in un acrobatico e spassoso duetto di trapezisti,
con Berlioz che tenta invano di afferrare in volo la sua amata. Nel
terzo movimento, il più complesso di riferimenti, s’intrecciano più livelli
visivi e simbolici. Siamo immersi nel mito romantico della natura, una natura
che vediamo sullo schermo magicamente animata dalla
musica, capace con la sua passionalità di smuovere le pietre e la terra. La
natura diventa rifugio proiettivo della memoria e dell’immaginario, crepuscolo
contemplativo che si concentra e si perde nel misterioso Angelus dipinto
da Millet, che la Fura fa rivivere sullo schermo elaborando una stratificazione
allegorica di visioni: l’immagine originale, la reinterpretazione di Salvador
Dalì, e l’animazione teatrale del dipinto, dove Berlioz seppellisce insieme
alla sua bella nel campo di Millet un neonato bambolotto, simbolo grottesco di
un amore nato morto. Nel quarto movimento la febbre immaginifica di Berlioz
sale, e qui la Fura si diverte nel gioco del contrasto, mescolando sulla
traccia musicale le scenette quotidiane e rassicuranti di Hariette che fa un
picnic o che guarda la televisione, con le sequenze dionisiache di un impetuoso
assalto carnale. Finché l’ossessione erotica spazza ogni impossibile pace dei
sensi e il sogno muta in incubo: la gelosia arma la
mano dell’artista che uccide l’amante di Hariette e lo condanna al supplizio
della ghigliottina. Una ghigliottina che la Fura porta in
scena sotto forma di un macabro talamo nuziale. Il quinto movimento è il
seguito grandguignolesco di quest’incubo, l’artista ritrova Hariette al suo
funerale ma è trasfigurata, gli appare come una volgare prostituta in mezzo a un corteo diabolico di mostri e streghe che danzano
intorno alla sua bara. A questo punto l’orrore trabocca dallo schermo per
riversarsi sulla scena: all’ombra di una cattedrale gotica oscilla appesa a una corda la discinta Hariette trapezista, suonando con il
peso del suo corpo la campana a morto, mentre le note del Dies irae si
levano dagli spiriti infernali annunciando l’inevitabile dannazione
dell’artista. L’azione teatrale si fa vera e propria coreografia, con una folla
di comparse che creano una passerella umana per la sfilata e il trionfo di
procaci streghe, protagoniste di un grottesco sabba che ricorda certi balletti
del varietà televisivo. Ammucchiata di corpi che esaltano il climax finale
della sinfonia, che esplode poi - a insaputa di
Berlioz - nel botto spettacolare di un fuoco d’artificio. Spettacolo
insolito per il pubblico palermitano che applaude un po’ disorientato.
La sinfonia videofantastica di Berlioz e della Fura è generosa di invenzioni ma procede nell’ardito e precario equilibrio
del trapezista sul filo, da una parte il rischio è quello di ridurre
l’astrazione della musica a un’eccessiva concretezza dell’interpretazione
visiva, ulteriormente fissata dalla Fura in una chiave prevalentemente ironica,
dall’altra parte il rischio è quello di ancorare troppo allo spartito la
dirompente fantasia del gruppo catalano, come una fiera in gabbia e con lo
smoking. Si capisce che la scommessa mira a far entrare la Fura nel circuito molto più vasto e ricco del teatro musicale, distillando
innovazione tecnoteatrale e invenzione scenica - di cui senza dubbio la Fura
resta uno dei principali artefici di questi anni - su una scena più
istituzionale e dal mercato più certo. Impresa legittima e forse anche utile
per bucare una quarta parete particolarmente resistente alla sperimentazione -
in Italia da tempo ci si prova con alterne fortune, da
Ronconi a Corsetti, Studio Azzurro e Raffaello Sanzio - ma che deve essere
intrapresa con molta attenzione per evitare che la soluzione scenica
multimediale entri dalla porta spalancata della moda e dell’effetto speciale,
una porta affacciata su un destino manierista, ma piuttosto penetri tra le
maglie strette del senso e della sinestesia che apparenta i linguaggi. Questa è
la scommessa più difficile e più vera che dovrebbe interessare la Fura e non
solo.
Foto Studio Camera.
N.35
(23.05.02)
La ri-scrittura drammaturgica di Luca Ronconi
Ripensando al Pasticciaccio
e ai Fratelli Karamazov
di Andrea Balzola
Nella stagione
1995/96, Luca Ronconi, all’epoca direttore del Teatro di Roma, mette in
scena al Teatro Argentina Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di
Gadda e due anni dopo, nella stagione 1997/98, I fratelli Karamazov di
Dostoevskij. La scelta aveva un senso evidente e persino dichiarato: partire
dalla grande letteratura per ripensare e ridefinire la
drammaturgia contemporanea, incagliata in una crisi che da molti decenni ormai
vive rarissimi sprazzi di luce. Un’altra motivazione, meno dichiarata ma
trasparente nel lungo e densissimo percorso registico di Ronconi, era la sfida
all’irrappresentabile. Fin dall’Orlando Furioso, attraverso Ignorabimus
di Holz, per giungere agli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus e
approdare ai più recenti “infiniti matematici”, il testo sembra valere per
Ronconi in proporzione alla sua complessità, perciò alla sua difficoltà di
messa in scena. Il fatto che l’operazione gli sia quasi
sempre riuscita, in modo spesso straordinario e sorprendente, lo ha
spinto naturalmente ad alzare ogni volta il tiro nel suo duello con la pagina
scritta. Come se la vocazione inespressa di Ronconi iniziasse proprio dalla
pagina, strappata quindi all’autore e riscritta sulla scena, in un minuzioso
lavoro di estrazione del sottotesto e di immaginifica
materializzazione del suo spazio simbolico. Già in passato avevo tentato una
lettura della processualità ronconiana, dal testo alla scena: “Ronconi inizia
dalla mancanza, da ciò che il testo contiene ma non esprime; fecondato dalla
sfasatura tra voce (pienezza inarticolata del senso) e linguaggio (messinscena
del senso) - la cosiddetta anomalia creatrice - Ronconi indaga ermeneuticamente l’inconscio testuale (soprattutto la
spazialità nascosta) con gli strumenti analitici della lettura filologica e
simbolica, e con quelli sintetici dell’intuizione registica. Lo spazio
dell’interrogazione del testo diventa così lo spazio simbolico nel
quale interagiscono la scrittura testuale dell’autore e la progettualità
scenica del regista, finché sorge lo spazio creativo della messinscena vera e
propria. Questo spazio ludico - sempre eccedente - istruisce il
codice specifico (ogni volta diverso) della recitazione degli
attori e della macchina scenica. (...) Ronconi trasforma il testo in congegno
teatrale.”
Una lettura che mi pare confermata dalle due messinscene del Pasticciaccio
e dei Fratelli Karamazov, emblematiche prove di
come un testo letterario possa trasformarsi in un testo teatrale senza perdere
la sua identità - soprattutto con Gadda pareva davvero improbabile - rivelando
anche come una sorgente essenziale del teatro si trovi ancora nella ricchezza
del linguaggio. Una ricchezza ormai surgelata nello
stereotipo, consumata dalla replica o vietata dal dogma odierno - di natura
commerciale - che professa la parola piana, naturalistica come la cronaca (come
se la cronaca non fosse artificio e menzogna), indifferenziata e facile alla
lettura distratta. Ronconi non ci sta, con coraggioso “anacronismo”
pensa ancora alla parola, e crede in una parola capace di pensare e far
pensare. Di qui la sfida: com’è possibile far rivivere sulla scena un’opera
così densa come quella gaddiana, che dall’intreccio poliziesco trabocca in un
flusso narrativo affollato, almeno in apparenza magmatico,
linguisticamente esuberante e stratificato, ritmicamente modulato di
toni, timbri e colori vividissimi? Ronconi rispondeva, nel programma di sala,
partendo da lontano, parlando di quella che secondo lui è
la primaria funzione del teatro: “strumento di conoscenza maturata attraverso
l’esperienza.”
Il “giallo” di Gadda, scritto a più riprese dal 1946 al 1957, ha un nucleo
drammatico forte: nella Roma fascista del 1927 si consuma un efferato delitto
di difficile soluzione. La vittima è una donna benestante e generosa,
ossessionata da una mancata maternità che la porta a ripetuti e infelici
tentativi di adozione di ragazzine povere e
problematiche. Il commissario, dibattuto in intricate situazioni e psicologie,
giunge quasi accidentalmente alla rivelazione dell’assassina, ma il finale
nella versione definitiva del romanzo (come nella trasposizione di Ronconi)
resta sospeso alla sua intuizione. Come diceva lo stesso Gadda, “la narrazione
è condotta in modo che i lettori vengano frastornati,
non più e non meno degli indagatori”, e “il nodo si scioglie ad un tratto,
chiudendo bruscamente il racconto.” Se inizialmente Ronconi pensava di
appoggiarsi al trattamento cinematografico (Il palazzo degli orrori) che
Gadda realizzò per una committenza poi abortita, abbandonò subito quella
mediazione, perché della scrittura gaddiana non era tanto la struttura
drammatica a interessarlo, quanto l’esuberanza
affabulatoria, l’originale eppure radicatissima visionarietà, intrisa di ironia
analitica, l’universo molteplice e aleatorio delle vicende individuali
mescolate negli eventi collettivi, la ricchezza del sottotesto. La chiave
registica era principalmente una, dalle conseguenze
rilevantissime: usare la forza stessa del testo per superare l’opposizione
tradizionale tra racconto in terza persona, specifico della scrittura
letteraria, e battuta dialogica, specifica della scrittura
drammaturgica. Gli attori recitavano la battuta anticipandola e/o commentandola
con la descrizione narrativa dei gesti e degli stati d’animo, senza soluzione
di continuità tra la prima persona e la terza. L’effetto produceva nello
spettatore una dilatazione temporale e psicologica dell’azione e del dialogo.
Senza ricorrere allo straniamento brechtiano, Ronconi introduceva nella parola
teatrale lo spazio intermittente della riflessione. Questo doppio registro
potenziava tanto l’attenzione dell’attore al suo eloquio e al suo gesto, quanto
quella dello spettatore al divenire del personaggio. La recitazione era così
pilotata in un difficile equilibrio tra la tensione drammatica e
l’accentuazione ironica, in uno sfumato chiaroscuro tra interiorità ed
espressione (da ricordare in particolare Franco Graziosi
nei panni del commissario). La musicalità e i colori - inflessioni e idiomi -
la modulazione barocca della lingua gaddiana, asciugate dalla puntuale ironia
che l’autore stesso porta nella parola e Ronconi nel tono e nel gesto, emergevano dal testo in una visione e in un ascolto
avvolgenti, labirintici e trasfiguranti. Questo flusso narrativo s’inseriva in
una scandita geometria scenica, dipinta con luci e colori evocativi della
stagione pittorica romana degli anni venti-trenta (con un finale un po’
casoratiano), e abitata dai movimenti quasi coreografici degli attori. Una
rigorosa unità ritmica dava una pulsazione costante, in levare, all’evento
scenico, con una modalità “cinematografica”
(ricorrente in Ronconi) di passaggio dal totale delle scene collettive al primo
piano ritagliato dalla luce, ai mutamenti di prospettiva, al montaggio delle
sequenze narrative con apparizioni e sparizioni di oggetti e personaggi da
botole e trampolini. Di questo maestoso affresco della modernità rimangono nella memoria alcune eclatanti invenzioni teatrali: dalla
keatoniana caduta della facciata della “Casa degli o(rro)ri” sui suoi
inquilini, alla zombiesca permanenza e vitalità della vittima sulla scena dopo
la sua uccisione; dalla splendida invettiva lirica dello Sbandato sul regime,
illustrata dalla “danza” delle giovani (e giovini in gonnella) italiane sotto
la protezione pater-fallica del busto del Duce, alla trasformazione del
commissariato in un bordello.
Sul piano tematico, Ronconi resta fedele a Gadda e
rilancia: appare evidente che non c’è soluzione di continuità tra il disperato
arrangiarsi del “popolino”, l’avida ipocrisia della borghesia romana e il
trionfalismo di cartapesta del regime, che fa da sfondo scenografico ed insieme
ne incarna l’essenza culturale. Così lontano dalle domestiche
trame eppure così radicato in quei cassetti e armadi dove si nascondono piccoli
tesori e grandi meschinità. La stessa colpa della vittima sacrificale,
madre idealmente perfetta eppure mancata, si innesta
come caustica metafora in un regime dove l’apologia patriottica della fertilità
e della proliferazione demografica si giustificava nella vocazione
guerrafondaia, nel populismo autoritario e un sogno abortito quanto impotente
d’imperiale statura. Fantasmi di ieri, oggi non
riproducibili, ma di cui si tenta il revisionismo, e che permangono perciò come
inquietanti radici di tentazioni plebiscitarie, di programmatiche ipocrisie, di
pruderie totalizzanti ed egemoniche. Di qui il possibile rigurgito
d’attualità di certa spietata quanto minuziosa radiografia gaddiana, che
Ronconi con il suo allestimento aveva segnalato, con un anticipo che da tempo è una delle sorprendenti caratteristiche delle sue
scelte testuali.
Dopo lo straordinario allestimento del Pasticciaccio, Ronconi ritorna
alla grande letteratura montando a tempo di record, in
poche settimane, sempre sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, una
fedelissima edizione teatrale de I fratelli Karamazov di Dostoevskij
(nella traduzione per l’Einaudi di Agostino Villa). Impresa che, di nuovo,
registra pochi precedenti, il più illustre è quello di Jacques Copeau nel 1911,
ripreso più volte da lui stesso e dai suoi collaboratori, fino al grande successo dell’edizione italiana del 1953 con la
Compagnia Stabile Teatro di Via Manzoni di Ivo Chiesa e la regia di André
Barsacq, protagonisti d’eccezione Memo Benassi (Fedor), Enrico Maria Salerno
(Ivan), Gianno Santuccio (Dmitrj), Glauco Mauri (Smerdjakov), Davide Montemurri
(Alesa) e Lilla Brignone (Grusen’ka). Meno fortunate furono le due precedenti
versioni italiane, del 1934, a cura di Carlo Grabner ed Enrico Raggio, con la Compagnia di Kiki Palmer diretta dal russo
Peter Sharoff, e del 1940, voluta da Anton Giulio Bragaglia nel suo Teatro
delle Arti, con un testo realizzato da Corrado Alvaro e pur grandi interpreti
come Salvo Randone (Dmitrij) e Lina Volonghi (Grusen’ka).
Nella versione di Ronconi, il testamento letterario e l’opera del genio russo
si trasformano in un progetto di spettacolo a puntate, sviluppato in tre parti
autonome ma consecutive di circa quattro ore ciascuna:
I lussuriosi, Il Grande Inquisitore, Un errore giudiziario.
In realtà, mentre le prime due parti sono andate in scena nel febbraio del
1998, la terza parte, che doveva seguire la stagione successiva, non è mai
stata allestita. La monumentalità dell’impresa questa volta spinge Ronconi a
rinunciare alla consueta magnificenza delle scene per concentrarsi sull’arazzo
drammaturgico e sulla prova degli attori. Un gioco semplice a vedersi ma molto
complesso a farsi (con decine di tecnici che lavoravano febbrilmente nel
“sottosuolo” del palcoscenico e dietro le quinte), di
dilatazioni e contrazioni spaziali, ottenute con sottili, talvolta trasparenti
quinte dipinte, aperture e chiusure di botole, scorrimenti meccanici degli
oggetti e degli arredi di scena. Poi improvvise e raffinate
citazioni pittoriche, come il cadavere disteso dello Starec Padre Zosima
(Antonio Piovanelli) che evoca il Cristo nel sepolcro di Holbein il
Giovane o come la raffaellesca madonna contadina (Manuela Mandracchia) della
povera famiglia di Nikolai Il’ic Snegirev (Stefano Jacovelli), o ancora, un
Cristo enigmatico e muto di memoria tizianesca. Una dimensione
pittorica, decadente e livida, che ispira tutte le scene di Margherita
Palli e le luci di Sergio Rossi, e che sostiene la parola di Dostoevskij senza
anacronistici naturalismi, ma anche senza forzature espressioniste o effetti
spettacolari. Come dicevamo, protagonista assoluto rimane il testo, che Ronconi
adatta alla scena rispettandone il più possibile la
lettera e la struttura, rimescolando soltanto la cronologia degli eventi, in
alcune particolari circostanze, ad esempio anticipando all’inizio della seconda
parte, come un flash-forward, la morte di Fedor Pavlovic Karamazov
(Corrado Pani), per metterla in relazione con la dipartita dello Starec Zosima.
Il romanzo, già originariamente concepito a puntate secondo il genere feuilleton,
ha uno svolgimento discontinuo che sposta l’attenzione di volta in volta su
situazioni e personaggi diversi. Così Ronconi, per mantenersi fedele al testo
originale, sceglie di montare lo spettacolo per quadri autonomi, dove i
personaggi appaiono e scompaiono, anche per lungo tempo; vivono su binari
paralleli che solo ogni tanto s’incrociano, e ritornano perciò ogni volta diversi. Un impegno ulteriore
per i protagonisti era perciò quello di riconquistare ogni volta sulla scena il
proprio personaggio, oppure, per gli altri attori che interpretavano ciascuno
più ruoli minori, di rendere plausibile il nomadismo tra personaggi diversi.
Più semplice invece, rispetto a Gadda, è stata la trasposizione teatrale dei
dialoghi, perché nel romanzo russo sono già presenti in forma diretta. La grande forza drammaturgica dell’adattamento ronconiano sta
qui soprattutto nel privilegiare i confronti diretti tra i personaggi, che si
consumano come duetti d’amore e di disperazione (memorabile il dialogo tra i
due fratelli Dmitrij-Massimo Popolizio e Alesa-Daniele Salvo nella quinta scena
della prima parte, o tra i due fratelli Alesa e Ivan-Giovanni Crippa nella
seconda parte, preludio dell’episodio del “Grande Inquisitore”); oppure si rivelano
duelli atroci, come quello tra le due rivali Katja-Galatea Ranzi e
Grusen’ka-Viola Pornaro nella prima parte. Ronconi esalta il nucleo centrale
della poetica dostoevskijana nel sublime episodio metatestuale del “Grande
Inquisitore”: la tensione insolvibile tra il bisogno della fede e la lucida
disperazione laica, tra vocazione spirituale e natura lussuriosa, tra passione
e distruzione, tra amore ed egoismo. I fratelli Karamazov e il loro dissoluto
genitore incarnano appunto gli aspetti contraddittori ma indissolubili, sia
della singolare personalità e vicenda biografica dello scrittore russo sia
dell’universale natura umana, di cui egli fu uno dei più acuti interpreti. Ciò
che più, ed ancora, affascina della sua scrittura è la capacità di affrontare i
“grandi temi” con uno “stile alto”, conservando la “ferocia” realistica
necessaria all’autenticità e all’emozionalità del racconto. È appunto questo
che Ronconi cercava sul piano drammaturgico. Lo aveva già detto a proposito
della trasposizione di Gadda e con i Karamazov lo ribadisce:
spostarsi verso la grande letteratura non significa negare la drammaturgia
contemporanea, ma contribuire da una prospettiva registica e con una
straordinaria esperienza della scena ad indicare dei modelli per una rigenerazione
della scrittura drammaturgica. La quale dovrebbe, nella
visione di Ronconi, sforzarsi di uscire tanto dall’attualità della cronaca,
quanto dall’asfittico intimismo pseudo-psicologico, come anche dall’astrazione
intellettuale e linguistica. Dal Pasticciaccio e dai Karamazov
emerge un chiaro modello di rifondazione drammaturgica, che fa indirettamente
ma inesorabilmente da specchio critico alla scrittura teatrale attuale, in
particolare quella italiana (resa però debolissima
dalla mancanza di occasioni e di verifiche produttive), troppo ancorata a
moduli ipercodificati, a una lingua fredda, né reale né inventata, lontana dal
colore drammatico e poetico del vissuto, insomma imprigionata in un respiro
corto dell’idea e del linguaggio.
Nell’equilibrio delle parti della trasposizione teatrale del grande
romanzo russo, la prima risultava più serrata e più corale, mentre la seconda
appariva più frammentata. La continuità del secondo episodio era sostenuta
dalla lacerante sospensione del monaco Alesa, tornato
nel mondo “lussurioso” e profano della sua famiglia e della sua comunità su
consiglio del padre spirituale Zosima, per svolgervi un’impossibile opera di
pacificazione. L’intreccio si coagulava comunque
attorno alla struggente metafora del monologo del “Grande Inquisitore”, di
fronte a un Cristo ammutolito nel mistero di un suo improbabile e “inopportuno”
ritorno, impennandosi infine nei lunghi monologhi del titanico
Dmitrij-Popolizio. La terza e conclusiva parte - Un errore giudiziario -
già concepita e pubblicata nel programma di sala, non è purtroppo mai giunta
alla luce, lasciando sospeso un progetto che meritava di avere altra sorte e
maggior respiro, sia nei tempi di elaborazione sia
nell’eventuale ripresa delle repliche, per dispiegare delle potenzialità che
potevano farne un caposaldo di una rinnovata tradizione teatrale italiana. Per
la portata del messaggio dostoevskjano, sintesi premonitrice dei grandi temi
del Novecento, e per la qualità dell’operazione di riduzione drammaturgica, I
fratelli Karamazov poteva infatti divenire - alla
maniera della longeva edizione di Copeau, ma soprattutto nell’impronta dei
grandi spettacoli creati da Ronconi nel Laboratorio di Prato degli anni
Settanta - una delle piattaforme per traghettare la cultura teatrale italiana
verso la dimensione europea del nuovo millennio. La scommessa latente, non
senza astuzia e ironia, di Ronconi, nella duplice veste di regista e direttore
artistico di un grande teatro italiano, era quella di
creare a teatro (fondandosi su una ricchissima tradizione) un secondo livello,
più colto, stratificato nei suoi contenuti e formalmente ineccepibile, del feuilleton,
intramontabile passione del grande pubblico popolare e borghese, prima
soddisfatta dalla letteratura non solo “bassa” ed ora definitivamente
involgarita dalle soap-opera e dai “teleromanzi”. Il grande
pubblico non frequenta più i teatri e quando ci va lo fa come per vedere una
televisione “dal vero”, spesso esclusivamente all’inseguimento dei beniamini
comici o mattatoriali del piccolo schermo. Deprimente realtà, forse, ma che il
teatro non può più ignorare, pena la sua stessa estinzione. Questa tendenza
tuttavia non va letta - secondo lo stesso Ronconi - solo in chiave negativa, ma
risponde a un bisogno collettivo di ritrovare la
“grande narrazione”, quella che diventa appuntamento collettivo, catarsi e
trasfigurazione del nostro quotidiano. I bambini la cercano nei cartoons
cibernetici, i ragazzi nelle saghe fantastiche o spaziali e nei computer games,
gli adulti nelle soap-opera televisive o
nell’epopea spettacolare del cinema americano, ma se il feuilleton
contemporaneo fosse scritto da dei Dostoevskij e messo in scena (anche quella
televisiva) da dei Ronconi, forse qualcosa potrebbe tornare a muoversi nelle
coscienze intorpidite del neonato millennio.